“Sul
corso c’era una cabina del telefono. La porta si apriva e si
chiudeva di continuo.
Le persone discutevano dei loro affari,
telefonavano a svariati uffici, combinavano appuntamenti, chiedevano
prestiti agli amici o tormentavano, con la loro gelosia, la persona
amata.
In un
soleggiato pomeriggio d’estate il poeta entrò nella cabina.
Telefonò ad un redattore e disse: Ho gli ultimi quattro versi! - e
da un foglio tutto spiegazzato li lesse.
Ahimé,
come sono deprimenti! - disse il redattore - Riscrivili, ma che siano
molto più allegri.
Il poeta
ebbe un bell’accampar ragioni, ma invano.
Posò
rassegnato il ricevitore e si allontanò.
Per un
po’ non arrivò nessuno, la cabina rimase vuota.
Poi
comparve una signora di giovane età, molto formosa e con un
chiassoso vestito a grossi fiori.
Voleva
aprire la porta della cabina.
Questa
dapprima non si aprì, ma poi si spalancò all’improvviso cosi da
respingere la signora sulla strada.
Al
tentativo successivo la porta rispose in modo tale che sembrò quasi
affibbiarle un vero e proprio calcio. La signora barcollò
all’indietro aggrappandosi alla cassetta delle lettere.
Erano
sempre più numerosi, ora, quelli che accorrevano, facevano commenti
sulla cabina, sulle poste e sulla signora dai grossi fiori.
Alcuni
pensavano che la cabina fosse attraversata dall’alta tensione.
La cabina
ascoltò per un po’ muta quelle strane congetture, poi si girò e
si avviò con passo quieto per la via.
Guardava
le vetrine.
Indugiò
davanti un negozio di gelati, alcuni la videro entrare anche in una
libreria.
Andò
oltre, poi si voltò e con discrezione, ma assiduamente, cominciò ad
occhieggiarla.
Passò la
notte in un giardino di rose, poco distante.
All’alba,
era salita su per il monte poi era discesa sul versante opposto ed
aveva imboccato la strada nazionale.
Molto
fuori città, oltre le ultime case, esiste un campo di fiori
selvatici, piccolo ed appartato fra gli alberi ad alto fusto, come un
laghetto di montagna.
E nel
cuore dell’estate, l’erba, la gramigna ed i fiori, arrivavano
fino alla cintola.
In questo
luogo si era installata la cabina.
I gitanti
che capitano lì ogni domenica ne sono molto contenti.
Se viene
loro in mente di fare uno scherzo a qualcuno che sta ancora dormendo
il sonno del giusto, o se ricordano improvvisamente di telefonare a
casa per avvertire che mettano sotto lo stuoino la chiave
dimenticata,
entrano
nella cabina e, mentre i fiori di campo dal lungo stelo si piegano
verso di loro sulla porta,
prendono
in mano il ricevitore.
L’apparecchio
tuttavia non dà linea.
Si
sentono invece nel ricevitore, ripetuti di continuo,
quattro
versi, molto sommessi, come di violino in sordina.”
(Istvan
Orkeny)
La poesia
sopravvive agli uomini, alla memoria, alle cose, probabilmente al
mondo ed alla vita.
Seppure, un
giorno, anche questo file dovesse bruciare,
un’eco di
sommessi versi continuerà a fluttuare,
esitando in
eterno.
Tra l’aria
fumosa ed acre.
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