Ho scritto cosa immagino, cosa immagina l'immaginazione, la mia intelligenza non artificiale ma reale, che naviga di fantasia e creatività home made.
Buon futuro allora!
e viaggiando a vista.
Arrivo alla cassa col carrello bello pesante, inizio
a riversare gli articoli sul nastro trasportatore, la cassiera scannerizza
veloce: olio, succo di frutta, speck, yogurt, banane, Buone intenzioni..
La ragazza prende la confezione e la guarda incuriosita..
“questo non passa, ma dove l’ha preso? Forse non sono stati ancora omologati
questi articoli, lo scanner non li legge infatti..”
“In realtà c’è uno scaffale laggiù” preciso io
“questo pacchetto era proprio tra i Rimpianti
e i Sogni a breve termine, e pure in
offerta speciale..”
“Mi dispiace signore, credo che lei sia entrato, senza volerlo, in un reparto
in fase di allestimento, non siamo ancora autorizzati alla vendita.. ma quando
aprirà, sicuramente per le Buone intenzioni
ci sarà il tre per due, questo è
sicuro.. sa com’è, nomen omen..
La pregherei di riportarli al responsabile di
reparto.. magari mentre finisco di passare il resto..tanto ce n’è di roba..”
Chiedo scusa all’unica signora in fila dietro di me
e ritorno allo scaffale incriminato, dove in effetti non ci sono ancora i
prezzi, individuo un tipo con logo del supermercato e dico: mi perdoni, ho
preso questo per sbaglio, la cassiera mi ha “redarguito”, ovviamente con
estrema gentilezza..
“Ma
non si preoccupi" replica il tipo, "del resto non era certo una cattiva
intenzione la sua, che poi metteremo in vendita anche quelle sa.. si si..intendo
proprio le Cattive intenzioni.. la gente è troppo pigra per elaborarle in
autonomia. Però credo costeranno un
botto, la nuova strategia di marketing punta all’arricchimento..ahah.. sto
scherzando.. ma scommettiamo comunque su un discreto successo commerciale..
certi articoli sono davvero di complicatissima reperibilità, e di elaborarli a
casa ormai, non ne vuol sapere nessuno.
Quindi vogliamo sfruttare l’indolenza e l’apatia generalizzata (ecco, di queste
non c’è proprio bisogno di un’offerta a pagamento..) offrendo oltre ai piatti
pronti, anche l’Emozione preconfezionata, le Inclinazioni della volontà, la Solerzia un tanto all’etto, il Desiderio in stick, l’Impegno, magari, anche in
versione spray o effervescente..”
Mi ammoniscono di nuovo dalla cassa “Signore,
qua avrei finito, paga cash o con carta?
Ok scappo.. ma mi vedrete presto.. il “desiderio in
stick”!! Troppo forte!!
Lasciarsi andare ogni tanto dovrebbe essere il vero istinto da blogger, come sottolinea l'amica YASHAL, in diretta, senza pre e post produzioni, come acqua a scorrere, non con un'idea da raccontare, ma per il gusto di discorrere, di sciogliersi in parole che non vogliono comunicare nulla di specifico, ma sgambare semplicemente in questo cortile all'aperto che abbiamo riservato loro, il nostro blog.
Un'oasi naturale, spazio tutto nostro, dove qualche volta è salutare prenderci una pausa, perché bloggare questo è, in fondo, guardarci allo specchio, come davanti un'opera d'arte, un monumento, un tramonto: destinarci tempo,
"illuminarci dalla parte giusta" dice Yashal, smetterla ogni tanto di spargere messaggi, arringare, "far sapere".. far sapere cosa poi?
Chi scrive su un blog è soprattutto
a se stesso che indirizza un messaggio: esserci.
Osservare, appassionarsi, scrivere e leggere assetato di umori, idee, bellezza, curiosità.
E poi riversare sensazioni in serenità, a briglia sciolta,
comunque un'autodedica, impulsiva e divertita.
Un post senza brutta copia per non perdere la spontaneità di scrivere a vista.
Per la trepidazione di scorgere bagliori in uno spazio dedicato.
Ma forse con un minimo spunto: per tutti quelli che hanno pensato anche solo una volta di aprire un blog,
e forse aspettano solo l'onda esatta..
Grazie Yashal.
Alcazar |
Siviglia ragnatela di azulejos a imbarazzare quell'istinto, che credevi unico, nel saperti districare in ogni dedalo urbano.
Invece ti sviano le cupole improvvise, i chiostri che attirano ad ogni portone anche solo accostato, i vicoli moreschi, l'eco dello scalpìccio che rimbalza tra palazzi e balconi sospesi e fioriti.
Un avventurarsi e un perdersi che rinunciano volentieri all'ausilio di ogni Google Maps.
Piazzette, crocevia e chiesine arabeggianti dove l'intrico di stucchi tra archi e pareti ubriaca l'occhio e solletica nuovi incanti.
Le vetrine esibiscono ventagli e boccadillos saturi di spettacoloso jamon serrano, prosciutto neanche lontanamente paragonabile ai nostri tradizionali tagli di maiale, anche quelli più pregiati.
Il Palazzo Reale, l'Alcazar, è un tracimare di ceramiche e struttture in pietra ricamata, in stile arabo islamico; ci si lascia il fiato e la meraviglia si moltiplica ad ogni nuovo cortile, ad ogni volta sospesa..
La Cattedrale, in origine immensa moschea, finisce per risentire degli eccessivi influssi che tra rinascimento, barocco e neoclassico hanno preso possesso dell'originaria struttura gotico/islamica, con la navata centrale invasa da coro e altare maggiore, così come ogni cappella laterale, tripudio di ori e stucchi a snaturare l'impianto primario. Rimane comunque opera imponente e magnetica, con il suo minareto, oggi torre campanaria, dal fascino spettacolare.
E poi ceramiche ovunque, ceramica come marmo dei poveri, ma anche con una funzione di tutela e difesa: l'umidità sale dal terreno e si mangia le costruzioni, la ceramica, fragile ed eterna al contempo, unico baluardo.
La carrozza iniziale ideale continuum della mozzarella di E’ stata la mano di Dio. Una combinazione gastronomica part(h)enopea appetitosa, vagamente indigesta però, se tradotta a forza in cinema.
E stavolta ci ficchiamo di tutto nella rutilante napoletanità rappresentata,
mancano il mercato del pesce e le sfogliatelle ma in un ipotetico terzo atto a
chiudere la trilogia, perché no?
Nei primi dieci minuti lungo videoclip di spot per profumi, ma senza il
profumo; poi nasce Parthenope, splendida sirena pupazzetta con due espressioni
alla Clint Eastwood, con sigaretta e senza.
Sorrentino la userà come fil rouge per legare quadretti di partenopeismo
convenzionale visto e stravisto: famiglia decaduta, camorra gomorriana (con
accoppiamento/iniziazione di clan
avversi), religiosità fanatica e blasfema, università bigotta con Silvio
Orlando perennemente scocciato e tristanzuolo, disabili alieni, l’ambito
scudetto, il temuto colera, incesti e aborti, attriciacce fuori tempo massimo, e
poi perenni richiami felliniani tra il grottesco e il bizzarro, con le
immancabili ciccione e gli spilungoni, e
c’è spazio pure per l’alcolista John Cheever interpretato da Gary Oldman, alla fine
il meno fuori luogo nonostante la sovraesposizione di bottiglie e bicchieri
vuoti.
Incessante l’interrogativo facebookiano rivolto da tutti alla nostra donna di
paglia: a cosa stai pensando? Ma
chissà se, pensa; la nostra bellezza di turno, desiderata da tutti..
“furbacchiona”..
La Ranieri “sofialorenizzata” intavola una catilinaria che si pennella
perfettamente addosso al cinema sorrentiniano. Chissà, magari un’auto
fustigazione.
C’è in atto, nel filmarsi addosso del regista, una frammentazione della trama
compiaciuta del nulla narrato: l’estetica innanzitutto, e a corollario le elementari e tediose citazioncine aforistiche alla Gambardella, richiamando anche una grande bellezza perduta,
come quella della Sandrelli imbruttita ancor più, come non bastasse al naturale
(m’è sovvenuto pure il Cage di Longlegs).
Parthenope cresce, senza scorgere l’amore ma sfilando di continuo, sforna decolté
ed esami esposti a pappagallo, ma trova anche il tempo di “ripassarsi” mezza
Napoli (non osiamo immaginare poi nei quarant’anni a Trento.. magari materiale
per successive pellicole, Song ‘e Napule suonerebbe bene..).
Circo appagato dall’esagerazione fino all’iperbolico “A dio non piace il mare”,
citato enfaticamente nei titoli di coda a stupire di nuovo; un mare che non
piacerebbe partecipando anche lui ai dolori esistenziali, donando vita e togliendola anche, un po’ come a Sorrentino, cui probabilmente
sta stretto il cinema e forse anche Napoli, ma si sforza di servircene una
visione tutta sua..
Eppure resto fan estasiato di Young e New Pope.. e spero
ancora nel rientro in carreggiata del nostro, con abbandono definitivo degli
stucchevoli ralenty e dei Cocciante di sottofondo..
Secondo alcune teorie l’evoluzione della tecnologia
permetterebbe, già oggi, la possibilità che noi tutti si esista in versione
simulata.
Parlo di quotidianità corrente, esperienze
sensoriali, pratiche emozionali, probabilità ed imprevisti (chi non ha mai
giocato a Monopoli?) programmati da un’entità super partes.
Ma anche una simulazione della simulazione, estrema
sintesi di una realtà originaria magari peggiore di qualsiasi scenario, quindi
non clonata e replicata, ma autonoma e sintetica.
Come individuarla? Forse ci è concesso concepirne
appena l’ipotesi.
Come queste semplici e innocue righe tentano di illustrare.
Sarebbe un’idea contro intuitiva, che tenta di superare la ragionevolezza
convenzionale, che aiuterebbe a rilevare dei bug di sistema, ammesso esistano
errori di programmazione, o magari anche questa è una concessione ammessa dal
Sistema, del resto tutto l’Universo sembra una macchina perfetta architettata
senza margini di errore.
Forse noi l’unica variabile capace di generare bellezza e caos al contempo.
Una sbavatura dei programmi, un pixel fuori posto,
un virus impertinente.
Insomma siamo noi oppure no? Pirandellianamente,
siamo - potenzialmente - realtà o finzione?
Forse basterebbe anche solo accettare tutti i cookies per adeguarci allo standard che qualcun
altro ingegnò, magari un giorno lontano. Senza troppe altre domande.
Ma se un giorno venisse alla luce la prova provata
del nostro essere una realtà simulata? Come reagiremmo? Potremo sacrificare la
sospensione dell’incredulità e prendere atto che la finzione ci governi da
chissà quanto?
E se uscire da questa condizione ci portasse solo danno? Se fosse stata
artatamente deliberata per migliorare la nostra vita e permettere la
persistenza della specie?
Ve la sentite di scovare la sbavatura, il difetto di sistema?
Potreste giocare a “dio”
senza il terrore di giungere a saperne troppo?
Rocca di Spoleto |
Sarà un post fotografico.. due giorni a Spoleto ti volano via che è una bellezza, specie se sole e temperatura si alleano col weekend prescelto.
Duomo di Spoleto |
Ancora Umbria allora, con angoli particolari, atmosfere medievali e rassicuranti, traffico zero grazie al tapis roulant sotterraneo che ti trasporta da un parcheggio fino alla Rocca, e poi giochino perfino piacevole discendere a piedi: Duomo, vicoli, straduzze fino ad immaginare Don Matteo che svicola in bicicletta.
Sulla strada del ritorno, in realtà allungando di qualche chilometro, il borghetto fiabesco di Rasiglia, tutto cascatelle e rivoli d'acqua a intersecarsi con le casette e i mulini..
Rasiglia |
Voglio solo sorrisi
per ogni pensiero
che ti tiene in ostaggio.
Voglio un sorriso
ogni volta che mi guardi
ogni volta che ti senti stanca.
Un sorriso appena
hai smesso di sorridere.
Un sorriso se ti volti
e ci sono io.
E quando non ti volti,
perché ci sono lo stesso.
Del resto scrivo quasi tutto, ormai, in funzione del blog, quindi dovrei disinnescare
questa presunta debolezza di trama che
comunque attiva il mio pensiero, la mia gestione di vita.
Direte voi: se hai il sospetto già ti riguarda, di
riflesso la proietti sulla tua scrittura, magari come alibi.
Per questo mi sforzo di perseguire una sorta di
eclettismo, pizzicando svariati argomenti come un frenetico guardarmi attorno a
sfuggire il déjà vu, aggrapparmi alla superficie del vivere, prendere aria
irregolare, assaporare assaggiando, percependo il tutto da diverse angolazioni,
solidificarle, quelle trame.
Ma la prediligo - la trama debole - per un senso di
sostegno. Voglio diffidare delle narrazioni spavalde, quelle che si
impadroniscono di carta e penna e ti sopravanzano nello sviluppo divergendo le
sorti e riscrivendo l’epilogo.
Offrono soddisfazione, ti fanno sentire
autore di una scintilla ma poi ti esautorano, rendendoti marginale.
Non intendo una trama che non badi a se stessa, ma ho bisogno di curarne il
ricamo, gestire e sentirmi partecipe, carezzare l’intreccio, custodire la
storia, avvertire che si tenga accanto, come a cercare consiglio.
E scriverne la mia arma, ma soprattutto la mia protezione.
Debolezza a esibirsi rifugio.
E magari al prossimo post sovverto ogni intenzione.
Si chiamava Eleonora, sua moglie. Aveva vissuto per
lei. E dopo la sua scomparsa era scomparso un po’ anche quel Vincenzo che tutti
avevano imparato a conoscere, per far posto a qualcosa di nuovo. Agli occhi degli altri, almeno.
C’era stato come uno stop, un rivalutare il mondo; mondo che lo aveva sempre affascinato
e continuava, nonostante tutto, anche ora, alla soglia degli 85 anni.
Non esisteva più il senso del donare, ma il vivere una sorta di assorbimento totale,
saturarsi di quel far fronte, come a riequilibrare l’assenza più importante,
a gremire i colmi della sua solitudine che gli parlavano di storie non più sue,
ma sapeva di non essere solo.
Ed allora ecco i viaggi, le letture, il cibo, i
teatri; il circondarsi di bellezza a stemperare supposta malinconia, nuovi
ricordi a confondere memorie inamovibili e crearne di nuove, inattese.
La sua casa museo traboccava di emozione, e lui manteneva tenacemente acceso
quel tepore domestico, come le boccette di profumo, mai più spostate.
Cenava e amava raccontarsi spesso con pochi, eletti, amici fidati, ormai
depositari delle sue confidenze, di intimità e affinità elettiva.
Viaggiare, adesso, era ricostituente e allo stesso
tempo calmante per l’anima, una sorta di salvavita, uno smussare turbamenti ma,
soprattutto, incentivo ad accumulare, riscoprire, rendere partecipe il se
stesso di una volta, riverniciare dove le crepe prendono vigore e dalle quali temeva,
un giorno, smettesse di trapelare la luce del ricordo, e il solo dubbio era che
l’aria ne ossidasse il sapore, una stasi che non voleva né poteva permettersi.
Alimentava un moto continuo a generare solo in apparenza quel frenetico porsi
al (r)esistere, come con le rose, puntuali ad ogni compleanno.
In realtà era un ripercorrere il suo: indossava il suo passato e se lo teneva addosso,
non aveva problemi di risorse economiche o liquidità: prenotava sempre doppio
coperto nelle cene dove cercava intimità, e due posti in aereo: sua moglie
occupava idealmente quello vuoto, tenendogli la mano per tutto il volo.
Le visite guidate erano di coppia, ogni nuovo arredo
per la casa aveva l’assenso di Eleonora, leggeva a voce alta in salotto con la
luce fioca, sceglieva assieme a lei nuove uscite in libreria, e curiosi saggi
in biblioteca.
Ad ogni prima teatrale lei gli sistemava la cravatta, quella regalata all’ultimo
compleanno, alla fine testimoniavano gioia autentica, ed Eleonora era sempre
nell’ultimo eco di applauso.
Non è solo la cifra immensa sbandierata ai quattro
venti - e le difficoltà affrontate da Coppola per questa sua creatura, rimettendoci
anche di tasca propria - a farmi attendere impatto e potenze visive che invece
fanno estrema fatica ad emergere;
ma anche le soluzioni digitali elementari e le architetture urbane futuristiche
alla Star Trek, con le automobiline a
bolla e i tapis roulant, una visione basica versione Legoland e che riesce a rivalutare anche certe
scenografie del lanthimosiano Povere Creature.
Non è solo la New Rome modellata sull’onda
dall’attuale bolla americana scimmiottante la decadenza della Roma di fine
Impero, con pretoriani corrotti e viziosi, i loro nomi a richiamarne l’epoca di
panem et circenses, e la plebe costantemente a sbirciare da dietro una rete
metallica;
ma anche la trama déjà vu, orpello alla grandezza posticcia
sullo sfondo dell'allegoria tra opulenza e bassifondi da aizzare
al proprio servizio, come tenterà il garrulo Commodo/Trump/LeBoeuf.
Il palazzo che viene fatto crollare all’inizio è una ridicola casa popolare che avrebbe sfigurato nella più degradata delle periferie romane, lontanissima dalla città che una sonda - guarda caso targata CCCP - dovrebbe radere al suolo per permettere a Megalopolis di disegnarsi utopica e rivoluzionaria, tra il fantasy e la new age stile Roger Dean, che da una vita celebra il futuro attraverso le mirabolanti copertine degli Yes.
Non è solo l’America messa su da Coppola che strizza
l’occhio a città crepuscolari viste e riviste, citando tutto il citabile, da
Fellini a Scorsese, da Nolan a Cuaron, da Spielberg a Scott;
ma anche il narrare una
favoletta dalle limitatissime pretese (forse buona parte del budget era per
convincere Dustin Hoffman in quel suo insulso cameo), senza poi farti testare nessuna inedita concezione, o un approccio davvero innovativo; si ricalcano richiami spremuti, dal pruriginoso al kitsch, e poi il consueto campionario di gelosie,
canzoncine, invidie, scaramucce e cotillons, passando dall’ormai obbligatorio lato LGBT.
Non è solo l’abusato tormentone del bel tormentato, architetto geniale che ha facoltà di
fermare il Tempo creando (e ricreando) materia con la plastilina magica Megalon,
fino ad innamorarsi della figlia del sindaco in bilico tra amore paterno e ardori
passionali;
ma anche tutto il calderone dove gli stessi protagonisti sembrano finire
spaesati recitando come automi e macchiette (Jon Voight tanto per dire, zio
magnate di Catilina e futuro sovvenzionatore dei suoi rampanti ghirigori
edilizi) ingoiati dalle sottotrame spesso in maldestro incastro.
Sarò un nostalgico, come Cicero, il sindaco
conservatore che, almeno inizialmente, osteggia Catilina, ma rimango legato
alla vera, autentica, e ancora “rivoluzionaria rivoluzione” coppoliana, quella di Apocalypse Now, altro spessore:
visivo, narrativo, emotivo.
Non è solo questa New Rome confusionaria, con l’utopia
giusto accennata tra alcool, droghe e
intarsi onirici;
ma anche la troppa carne al fuoco senza focalizzare ne’ storia
e meno ancora i caratteri di personaggi a rasentare il fumetto.
Del resto anche
il superpotere di Adam Driver ne evidenzia questa essenza visionaria e cartoonistica,
ritagliandosi prologo ed epilogo ad effetto, fino ai tarallucci e vino del
finale dove, tra le altre ovvietà, non solo Speranza, Pace, Giustizia e Prosperità
ma anche, e per l’ennesima volta, Shakespeare nel suo massimo evergreen, sempre
utile in tutte le epoche ed evidentemente in tutti i futuri auspicabili..
Menzionerei comunque tra i comprimari, oltre Shia LeBeouf
in veste, diciamo pure, eccentrica, la nostra immarcescibile Elsa Fornero,
per l’occasione moglie del sindaco cattivo, senza tuttavia apparenti crediti
nei titoli di coda.
La fotografia tenta con qualche garbo di rendere tutto impalpabile mai come
la colonna sonora, però, impalpabile davvero.
Mi sa che stavolta Coppola ha dilapidato davvero, in
una botta sola, tutti i sospesi
raccattati dal garzone di bottega per conto del droghiere.. (cit. all’apparenza
generica, ma neanche troppo).
Francis Ford Coppola. Ex droghiere. |
Leggere Carver, e rileggerlo. E ogni volta a
scoprire righe non scritte, periodi sottintesi, paragrafi sottaciuti, capitoli
accennati, intere storie che fanno appena capolino, protagonisti che neanche si affacciano.
Un minimalismo che ha fatto scuola, che può rendere un racconto breve più intenso
di un’intera opera narrativa; perché dobbiamo collaborare, percepire, diventare
storia, leggere ad ogni riga le dieci non scritte, ogni allusione e i suoi
dieci indizi confusi, ogni dettaglio e la sua narrazione a sostenerne le radici.
Perché non ballate? Indica Carver. Dovete anche leggere però, ad ogni traccia
sospesa.
Perché non leggete?
Un racconto di Carver sta a noi, non a lui.
Perché
non ballate?
In
cucina si riversò da bere e guardò la camera da letto sistemata sul prato
davanti a casa. Il materasso era scoperto e le lenzuola a righe bicolore erano
piegate sul comò, accanto ai due cuscini.
A parte ciò, aveva lo stesso aspetto di quando stava al chiuso – comodino e
lampada da lettura dalla parte di lui, comodino e lampada da lettura dalla
parte di lei.
Di lui, di lei.
Ci pensò un po’ su mentre sorseggiava il whiskey. Il comò era a poca distanza
dal fondo del letto.
Quella mattina ne aveva svuotato i cassetti e sistemato il contenuto in
scatoloni, che adesso erano in soggiorno.
Accanto al comò c’era una stufa portatile. Ai piedi del letto, una poltroncina
di vimini con un cuscino.
La cucina di alluminio lucido occupava parte del vialetto d’ingresso.
Una tovaglia di mussola gialla, troppo grande, un regalo, copriva il tavolo e
pendeva tutt’intorno.
Sul tavolo c’era un vaso di felci e più in là un cofanetto di argenteria, un
altro regalo.
Un grosso televisore a console poggiava su un tavolino basso e, a poca
distanza, c’erano un divano, una poltrona e una lampada a piantana.
Aveva tirato una prolunga dalla casa e tutti gli apparecchi erano collegati e
funzionanti.
La scrivania era contro la porta del garage. Sul suo piano c’era qualche
utensile, un orologio da parete e due stampe incorniciate.
Sempre nel vialetto, c’era uno scatolone pieno di tazze, bicchieri e piatti,
ciascuno avvolto in una pagina di giornale.
Quella mattina aveva svuotato gli armadi e ora, a parte i tre scatoloni in soggiorno,
ogni cosa era fuori dalla casa. Ogni tanto una macchina di passaggio rallentava
e la gente guardava incuriosita.
Ma nessuno si fermava.
Gli venne in mente che non si sarebbe fermato neanche lui.
– Oh Signore, dev’essere una svendita, – disse la ragazza al ragazzo.
I due stavano arredando un piccolo appartamento.
– Vediamo quanto chiedono per il letto, – disse la ragazza.
– Chissà quanto vogliono per quel televisore, – disse il ragazzo.
Entrò nel vialetto e fermò la macchina accanto al tavolo della cucina.
Scesero e cominciarono a esaminare gli oggetti. La ragazza toccò la tovaglia di
mussola.
Il ragazzo accese il frullatore e lo regolò su trita.
Lei prese uno scaldavivande. Lui accese il televisore e cominciò a
sintonizzarlo con cura.
Sedette sul divano a guardare qualcosa. Si accese una sigaretta, diede
un’occhiata in giro e gettò il fiammifero nell’erba. La ragazza si accomodò sul
letto. Scalciò via le scarpe e si sdraiò.
Riusciva a vedere la stella della sera.
– Ehi, Jack, vieni qua. Prova un po’ il
letto. Prendi uno di quei cuscini, – disse. – Com’è? – chiese lui. – Provalo, –
fece lei. Lui si guardò intorno. La casa era buia. – Mi pare un po’ strano, –
disse.
– Meglio vedere se c’è qualcuno in casa. Lei rimbalzò sul letto. – Prima
provalo, – disse.
Lui si distese e si mise il cuscino sotto la testa. – Allora, che te ne pare? –
chiese la ragazza. – Sembra sodo, – disse lui. Lei si girò su un fianco e gli
mise le braccia attorno al collo. – Dammi un bacio, – gli disse. E lui: – Dai,
alziamoci– Baciami. Baciami, tesoro, – disse lei.
Chiuse gli occhi. Lo teneva stretto. Lui dovette aprirle a forza le dita.
Disse: – Fammi vedere se c’è qualcuno in casa, – ma si limitò a mettersi a
sedere. Il televisore era ancora in funzione. Qualche luce si accese nelle case
lungo la strada. Il ragazzo era seduto sul bordo del letto. – Non sarebbe
divertente se… – disse la ragazza, e sorrise senza finire la frase.
Lui rise. Accese l’abat-jour. Lei scacciò una zanzara.
Lui si alzò e si sistemò la camicia nei pantaloni.
– Guardo se c’è qualcuno in casa, – disse.
– Secondo me non c’è nessuno, ma se ci sono gli chiedo quanto vengono queste
cose. – Qualsiasi cifra ti chiedano, offri dieci dollari di meno, – disse lei.
– Mi sa che sono disperati o giù di lì. Seduta sul letto, si mise a guardare la
Tv. – Tanto vale che alzi il volume, – disse, ridacchiando.
– Il televisore non è male, – disse lui. – Chiedigli quanto viene, – disse lei.
Max arrivò lungo il marciapiedi con una busta del supermercato.
Aveva panini, birra e whiskey.
Era tutto il pomeriggio che beveva e ormai aveva raggiunto il punto in cui
l’alcol che mandava giù sembrava cominciare a schiarirgli le idee.
Ma c’erano anche dei momenti di vuoto.
Si era fermato al bar vicino al supermercato, si era messo ad ascoltare una
canzone al jukebox e, non sapeva come, si era fatto buio prima che si
ricordasse delle cose fuori sul prato.
Vide la macchina nel viale e la ragazza sul letto. Il televisore era acceso.
Poi vide il ragazzo in veranda.
Cominciò ad attraversare il prato. – Salve, – disse alla ragazza. – Hai trovato
il letto.
– Salve, – disse lei. – Lo stavo giusto provando –.
Diede qualche pacca sul materasso. – Non c’è male come letto. – Sì, un letto
niente male, – disse Max.
– Cos’altro volevo dire? Sapeva di dover dire altro.
Mise giù la busta e ne tirò fuori la birra e il whiskey.
– Credevamo non ci fosse nessuno, – disse il ragazzo. – Ci interessano il letto
e forse il televisore. Magari anche la scrivania.
Quanto vuole per il letto? – Per il letto pensavo cinquanta dollari, – disse
Max. – Le vanno bene quaranta? – disse la ragazza. – Quaranta, d’accordo, –
disse Max.
Prese un bicchiere dallo scatolone, lo liberò del giornale e aprì la bottiglia
di whiskey. – E il televisore? – disse il ragazzo. – Venticinque. – Le vanno
bene venti? – disse la ragazza.
– Venti, sì. Mi vanno bene venti, – disse Max. La ragazza lanciò un’occhiata al
ragazzo. – Volete bere qualcosa, ragazzi? – chiese Max.
– I bicchieri sono in quella scatola. Io mi siedo un attimo.
Mi siedo qui sul divano.
Si sedette sul divano, si appoggiò allo schienale e li fissava. Il ragazzo tirò
fuori due bicchieri e versò il whiskey. – Quanto ne vuoi? – chiese alla
ragazza. Avevano solo vent’anni, il ragazzo e la ragazza, tra loro c’erano un
mese o due di differenza. – Basta così, – disse la ragazza. – Mi sa che nel mio
ci voglio un po’ d’acqua. Tirò fuori una sedia e si sedette al tavolo della
cucina. – L’acqua è in quel rubinetto lì, – disse Max. – Apri quel rubinetto.
Il ragazzo allungò il whiskey, suo e della ragazza, con dell’acqua.
Prima di sedersi anche lui al tavolo della cucina si schiarì la gola. Poi
sorrise.
Sopra di loro gli uccelli sfrecciavano a caccia d’insetti.
Max fissava lo schermo del televisore. Si scolò il bicchiere.
Allungò una mano per accendere la lampada a piantana e la cicca gli cadde tra i
cuscini del divano.
La ragazza si alzò per aiutarlo a
trovarla. – Vuoi qualche altra cosa, tesoro? – disse il ragazzo.
Tirò fuori il libretto degli assegni. Versò altro whiskey per se stesso e per
la ragazza. – Oh, voglio la scrivania, – disse la ragazza. – Quanto costa la
scrivania?
Max agitò la mano per scacciare quella domanda ridicola. – Di’ una cifra, –
disse.
Li guardò lì seduti attorno al tavolo.
Alla luce della lampada c’era qualcosa di speciale nell’espressione dei loro
volti. Un’aria di cospirazione, per un attimo, che poi però si trasformò in
un’espressione tenera – non la si poteva definire altrimenti.
Il ragazzo le sfiorò una mano.
– Adesso spengo il televisore e metto su un disco, – annunciò Max.
– Anche il giradischi è in vendita. A poco. Dite una cifra.
Si versò altro whiskey e aprì una birra.
– Tutto in vendita.
La ragazza gli porse il bicchiere e Max le versò altro whiskey. – Grazie, –
disse lei. – Dà subito alla testa, – disse il ragazzo.
– Già comincia a girarmi. Finì di bere, fece una pausa e poi se ne versò un
altro. Stava scrivendo l’assegno quando Max trovò i dischi.
– Scegli qualcosa che ti piace, – disse Max alla ragazza, porgendole i dischi.
Il ragazzo continuava a scrivere. – Ecco, – disse la ragazza, indicando un
disco.
Non conosceva i nomi sulle copertine, ma non importava.
Era un’avventura.
Si alzò dal tavolo, però poi si rimise a sedere. Non voleva starsene seduta lì
ferma. – Lo faccio al portatore, – disse il ragazzo, che continuava a scrivere.
– Benissimo, – disse Max. Si scolò il whiskey e subito dopo un po’ di birra.
Si riaccomodò sul divano e accavallò una gamba sull’altra. Bevvero. Ascoltarono
il disco fino alla fine.
Poi Max ne mise su un altro.
– Perché voi ragazzi non ballate? – disse Max.
– È una buona idea, no? Perché non ballate?
– No. Non mi pare il caso, – disse il ragazzo. – A te va di ballare, Carla? –
Coraggio, – disse Max. – Il vialetto è mio. Ci potete ballare.
Abbracciati, i corpi stretti l’un l’altro, il ragazzo e la ragazza si
spostarono su e giù per il vialetto. Ballavano.
Appena finì il disco, la ragazza invitò Max a ballare. Era ancora senza scarpe.
– Sono brillo, – disse lui. – Ma no che non sei brillo, – disse la ragazza. –
Be’, io lo sono, – disse il ragazzo.
Max cambiò lato al disco e la ragazza gli si avvicinò.
Cominciarono
a ballare. La ragazza lanciò un’occhiata alla gente che si era affacciata al
bovindo della casa di fronte. – Quelli là. Ci stanno guardando, – disse. – Va
bene? – Va bene, – rispose Max. – Il vialetto è mio. Possiamo ballare.
Credevano di averne viste di tutti i colori quaggiù, ma questa non l’avevano
ancora vista, – disse.
Dopo un po’ sentì l’alito caldo di lei sul collo e disse: – Spero che ti
piacerà il tuo letto. – Senz’altro, – disse la ragazza. – Spero che piacerà a
tutti e due, – disse Max. – Jack! – disse la ragazza.
– Svegliati! Jack si reggeva il mento e li guardava assonnato.
– Jack, – ripeté la ragazza. Aprì e chiuse gli occhi.
Affondò il viso nella spalla di Max.
Si strinse di più a lui. – Jack, – mormorò.
Guardò il letto e non riuscì a capacitarsi di cosa ci facesse in mezzo al
prato. Alzò gli occhi al cielo sopra la spalla di Max.
Gli si aggrappò. Si sentiva piena di un’insopportabile felicità.
In
seguito la ragazza disse: – Il tizio era di mezz’età. Tutti i suoi averi erano
sparsi lì sul prato. Non scherzo mica. Ci siamo ubriacati e abbiamo cominciato
a ballare. In mezzo al vialetto. Oh Signore! Non ridete. Ha messo su dei dischi.
Guardate questo giradischi. Ce l’ha regalato lui.
Anche questi vecchi dischi. Jack e io abbiamo dormito nel suo letto. La mattina
dopo Jack soffriva dei postumi della sbornia e ha dovuto prendere un carrello a
nolo.
Per portare via tutta quella roba del tizio.
A un certo punto mi sono svegliata. Ci stava mettendo una coperta addosso, quel
tizio. Questa coperta. Sentite qua. Continuava a parlare. Raccontò la storia a
tutti.
C’era dell’altro, lo sapeva, ma non riusciva a metterlo in parole. Dopo un po’,
smise di parlarne.
Un turismo di superfice che non si immerge, non si dedica, un turismo che mette il timbro di presenza senza approfondire, senza sfogliare, senza respirare.
Come mai questa approssimazione? Un bar in cambio di una chiesa romanica.
Una panchina invece di un'escursione di viuzze contorte.
E' la misura dei nostri tempi forse, tempi che hanno perso curiosità, il gusto della meraviglia.
La toccata e fuga per poter dire "abbiamo visto.."
Senza guardare.