“Poche
cose possono essere più insondabili e disperate del pianto di un
bambino. Come se nel suo pianto si raccogliesse tutto l'indicibile
dolore dell'essere soli e vivi.
Ne ho
un'esperienza personale. Molti anni fa, di ritorno a casa a notte
alta nell'antica strada romana dove abitavo, il silenzio era rotto
dal pianto dirotto di un bambino nascosto tra il muro di casa e le
auto in sosta. Era il piccolo venditore di stringhe che nel quartiere
tutti conoscevano. Inutile cercare di capire la ragione del suo
pianto ostinato ed ogni tentativo di consolarlo comprandogli tutte le
stringhe del suo vassoio di legno aveva avuto per solo risultato un
testardo voltarmi la schiena senza smettere quel suo oscuro pianto
finché, per non essere più infastidito, se ne era andato a piangere
dietro un'altra macchina più lontana. Nell'insieme un piccolo
ricordo che misteriosamente mi avrebbe accompagnato negli anni legato
ad ogni bambino che piange. Perché tutti i bambini che piangono ad
ogni angolo del mondo sono lo stesso bambino. Siamo noi. Soli e vivi.
Allora e sempre”. (Gianfranco Calligarich)
Propedeutica
premessa al mio, personale, ricordo:
Proprio
l'estate scorsa, in una serata afosa di quelle che solo certa
periferia romana può dispensare, c'imbattemmo (ero con mia moglie
invitati a cena da amici) in un ragazzino disperato e dal pianto
dirotto, fermo sul marciapiede come in attesa di qualcosa,
pantaloncini e petto nudo, sei sette anni al massimo.
Avevamo
appena parcheggiato ed ora, a motore spento, nel silenzio di quella
fetta di Roma semideserta, l'eco del singhiozzare risuonava
inquietante.
Mi avvicinai
per chiedere cosa era successo: “Ho perso il mio papà, è uscito a
portare il cane nel parco e sono rimasto chiuso fuori di casa”.
Potevamo
lasciarlo cosi? Parlava male italiano, l'inflessione era slava o
albanese, il viso dolcissimo, me lo sarei portato a casa, giuro;
cercammo di capire dove potesse essere questa casa e lui s'incamminò
per i dedali di questi cortili tra palazzoni pachidermici, dove le
comunità convenzionali, e spesso succede nelle periferie
sovraffollate, incrociano comunità irregolari, dai lavori precari e
dagli ambigui sostentamenti.
E noi
seguivamo il bimbo verso questi confini mai esplorati, a dir la
verità, oltre le rassicuranti colonne d'Ercole del quartiere
conosciuto, con qualche apprensione, tanto da far dire a mia moglie:
Non è che si tratta di una trappola per rapinarci? Ed io subito a
scacciare l'insano pensiero, ma senza essere, in realtà, affatto
tranquillo.
Ci
allontanavamo dai circuiti consueti per inoltrarci in una zona
franca, di abitazioni arrangiate, spesso a livello terra o di
seminterrato, a sfruttare locali per esercizi commerciali concepiti
in origine per un ipotetico passeggio da shopping, ma presto
ingoiati dal degrado.
Cittadinanze
ibride, strati sociali dal disagio tangibile a vista, e noi appresso
a quel ragazzino che, d'improvviso, si blocca davanti ad una porta
creata dal nulla sull'entrata di un potenziale negozio di quartiere
modello: magari solo nelle intenzioni dell'urbanista ispirato, un
tizio che semina cemento dove attecchirà indigenza.
Attorno
panni stesi in residui giardinetti condominiali fantasma, indigeni
che ci guardano strano, a noi: pasciuti frutti dell'opulenza
integrata - lavoro vacanza cinema ristorante casa lavoro e di nuovo
ancora, in quel ciclo incurante, che non sa del resto del mondo che
va tre a cilindri, a due o anche meno -.
Suono al
campanello. Nulla. Dentro intravedo luci fioche. Ovviamente niente
finestre, la saracinesca è stata tolta per far posto ad una parete
di cartongesso con porta annessa.
Una delle
innumerevoli abitazioni che sfuggiranno a censimenti ipocriti.
Si avvicina
una ragazza con passeggino e bimbetto relativo, chiama il “nostro”
ragazzino per nome e lui che continua singhiozzare; è albanese, ci
spiega, io il nome non l'ho ancora capito ma è come se lo avessi con
me da una vita. Le dico che avrei chiamato la polizia, mi guarda come
se avessi parlato di marziani.
Avrei quasi
preferito che nessuno lo riconoscesse nella mia fantasticata
adozione-lampo-fai-da-te.
Ci confida
di genitori e fratelli poco raccomandabili e poco presenti con lui,
il bambino, sempre a spasso per il quartiere e dintorni, e che non
dobbiamo preoccuparci, lo prende lei in custodia, lo verranno a
riprendere, è abituata; tutti sono abituati cosi, i cuccioli del
branco li gestisce la collettività, questa collettività al margine,
al margine dello shopping, delle vetrine, delle vacanze, del
resto-del-mondo.
La salutiamo
ringraziandola, e salutiamo lui, stropicciandogli i capelli crespi,
mentre si asciuga i lacrimoni, venendo via con un sorriso malinconico
stampato sulla faccia.
A pensarci -
all’epoca - che quel ragazzino eravamo noi, soli
e vivi. Allora e sempre.
E da
quell’allora, ogni volta che ripasso nei dintorni, c’è un
pensiero in più che torna, un sorriso che combatte con le lacrime.
Uno ricordo
straniante.
Ma nessunoi dei miei lettori è mai capitato su questo post? Mannaggina.. ;)
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