Singolare combinazione
tra The Millionaire (citato anche) e Parasite (più che citato) in questa
pellicola cupa, caustica, drammatica e avvincente, dove un quadro di India
devastante, corrotta, senza spina dorsale, viene evidenziato senza pietà ma con
estremo raziocinio. La lucidità disincantata di Aravin Adiga, dal cui romanzo “La
tigre bianca” è tratto il film, frantuma
il sogno dell’interclassismo e della raggiunta indipendenza, denuncia lo
strapotere di ristrette caste a danno di tutte quelle inferiori, ridotte ad una
cosciente servitù perenne, come i polli in gabbia che non cercano neanche di
scappare di fronte allo spettacolo dei loro simili sgozzati, come fosse un
disegno ineludibile. Rinchiusi in una stia perenne e senza via d’uscita, polli
e uomini, senza nessuna prospettiva diversa. Anche se il palcoscenico è quello
di una presunta nuova potenza mondiale, dove la mentalità rimane quella
postcoloniale e le uniche variabili sono corruzione e servilismo.

Balran, protagonista,
incastrato in un meccanismo perverso, cercherà di svestire i suoi panni, in una
storia prigioniera di se stessa, dove lo spirito del servo, felice già solo di
servire - dopo aver abbandonato il suo villaggio rurale di provenienza - suo
malgrado, quando sente venire meno la fiducia, comincia a ragionare da tigre
bianca, fuori dal coro; a sentire stretta quella gabbia nata e riconosciuta per
anni come suo mondo. L’arroganza e la prevaricazione lo stritolano in
meccanismi impietosi e perversi, che anziché evolverne il pensiero, lo riducono
alla loro stregua, lo rendono servo anche dell’arrivismo, emulo del crimine,
vittima di boria malata.
“che valeva la pena sapere, anche solo per un giorno, anche solo per
un’ora, anche solo per un minuto, cosa significa non essere un servo”
Non ci sarà redenzione
o fuga o rivalsa. Solo la sconfitta comune, il medesimo rovescio della medaglia,
una sindrome che accomuna servo e padrone in un tragico paradosso senza via d’uscita.