Dal racconto di Giorgio Sgarbi, da cui è tratto molto liberamente il film di Avati, giusto rare tracce della lirica e della leggerezza originali; ampio spazio, invece, ai mezzucci utilizzati da Pupi per
sensibilizzare la platea, specialmente sul ricamato rapporto tra il protagonista che ha
perso l’amata moglie e il ghostwriter chiamato a “immortalarne” la loro storia, davvero utilitaristici e risibili, adatti giusto al filmetto che viene fuori, e che trasforma l'emozione in melodramma facile facile, soffocandola in una girandola di
soluzioni pretestuose e siparietti al limite.
Non sopporto questo
modo di fare cinema, questo dover stupire lo spettatore anziché farlo addentrare
con tatto, questo creare esagerati contrasti iniziali, per poi farli
repentinamente convergere in una sincera e costruttiva amicizia (Gifuni che
sparolaccia all’inizio, e alla fine va via con la testa fuori dal finestrino come un cagnolino a
guardare Pozzetto; e sconforta, si, ma solo nel constatare a cosa si arrivi
per coinvolgere con maldestra superficialità).
Quindi è già con il Pozzetto catatonico, rimasto nel limbo della memoria immortale della sua amata consorte, e il suo incontro con un Gifuni calcolatore, che guarda solo i suoi interessi - ad emozione e garbo zero -, che Avati brucia gran parte delle sue carte, rendendo macchiette posticce e arruffate anche tutte le figure di contorno.
Salvo giusto una luminosa
Ragonese, anche se costretta a scene artefatte, come fuga e ritorno nella
dimora di lui, appena sposati; ed un bel ritaglio anche per Haber, misurato e a suo agio.. ma davvero poco, troppo
poco.. e peccato per i radi squarci di poesia malinconica, che si perdono nelle forzature..