Non lo so sinceramente, se è stata la mano di Dio a
salvare la vita al Fabietto della storia, a segnare il gol attribuito a
Maradona, o a impedire che la presenza di Sorrentino sedicenne potesse magari
evitare, ai genitori, di morire col monossido di carbonio.
E se Dieguito non fosse mai sbarcato a Napoli, magari salvandoli? So solo che a
somatizzare il tutto, c’è un Sorrentino divenuto regista, particolarmente
legato a questo suo senso estetico di girare, ma pesante, accasciato come un
lampadario di sbieco nel salone col suo dolore da raccontare, con questa
perenne voglia di creare immagine a sé stante, di richiamare visioni, a partire
dal munaciello per insistere su tutte
le fellinianità immaginabili (anzi, già immaginate - che ci faceva il "convenzionale" fratello di Fabietto in mezzo a cotanta fauna da audizione?-).

Alla fine disperdiamo anche le chicche, come il tufff tufff dell’offshore che Fabietto
sembra voler rallentare ad arte, o certe mitiche vhs rimaste a prendere polvere
sul tv senza telecomando.
Piange in pubblico, esibendo dolore, ma di spalle alla camera, il nostro piccolo
Fabio, un pudore anche quello, ma con i singhiozzi a fare da sottotitoli, una
bella immagine dove avrei lasciato intuire…
C’è tutta un’aneddotica forzata in questa mano di Dio, un déjà vu insistente di
piccoli riquadri e ritagli che sfuggiranno, di delinquenza folcloristica, di
mozzarelle che colano, di vespa in tre per far sorridere i profani, come le
iniziazioni con la baronessa decadente e decaduta, i razzi di segnalazione
sparati in cielo o le ciccione in bikini.
La Luisa Ranieri (in Montalbano), zia Patrizia, richiama il primo Clint Eastwood
(col sigaro o senza); anche lei a due velocità, con tetta o senza.
Dobbiamo corrergli dietro a Sorrentino, che non per nulla ringraziò Maradona
agli Oscar - comunque gli ha scombussolato la vita - e ora cerca di segnare rivestendo
Napoli di fuffa, lentezza e punizioni all’incrocio.
Regista che si altalena nelle mie preferenze, adoro assolutamente Young Pope,
non riesco a collegarmi invece con le grandi bellezze, un elenco freddo di “vibrazioni”,
come avevo già scritto per il suo precedente Oscar, e con questo pugno di Dio
finito in rete, ribadisco le medesime sensazioni: voglia di raccontare, ma
tutto a ralenty, tra pause e bradipeggi di macchina da presa, addirittura un
azzardo di challenge col pibe de oro avvistato in auto, ma anche certe pieghe
oniriche che lasciano il tempo di un saluto del munaciello alla stazione di Sessa Aurunca (spacciata per Formia).

Mancava un Jep Gambardella (un potenziale futuro Fabietto, contaminato dalla
presunta bellezza romana), e avremmo chiuso il cerchio.
Di sicuro salvo l’eclettica e pregevole Teresa Saponangelo, giocoliera a mitigare rabbia, nei panni della mamma di Paolo, cui il film è dedicato.
Servillo, ormai feticcio di se stesso sembra sempre omaggiarsi, due toni sopra
il necessario, effetto della sovraesposizione? (Ormai aspetto solo un film dove
lui e Favino si impersonino l’un l’altro). Il piccolo Fabio (Filippo Scotti) se
la cava, tranne in qualche eccesso, ma lo perdoniamo, in fondo lo hanno
disegnato così, tra citazioni colte e zie giunoniche, in “una realtà un po’
scadente”.
La sorella uscirà dal bagno (ecco un’idea intrigante)
solo alla fine. Il film, invece, rimane chiuso nella cornice di Napoli notturna
e luccicosa, nel dolore in sordina di un giovane Sorrentino che ne farà tesoro a suo modo.
Io, intanto, aspetto un altro Pope, young o meno che sia.
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"Bufala il film?! Noo, la mozzarella!" |