Come il tediosamente molesto ispettore ferroviario,
sono rimasto azzoppato anch'io attendendo invano un decollo che si affrancasse da questo baby Shutter Island, col pesantissimo occhialetto 3D che nel cinema in carne ed ossa più di tanta strada non può (forse bucare lo schermo in rare occasioni,
ma l'effetto ottico applicato al sentimento latita in un'impotenza, quella si, multidimensionale) e che sempre più ha rimpicciolito il visore rendendosi degno giusto in due/tre sequenze (i fogli svolazzanti o il libretto ridotto in cenere...).Come l'elementare fauna “Stazionaria”, ho provato ad elevarmi dalla fin troppo facile teoria favolistica che aleggiava sull'onda dell'omaggio al Cinema primordiale.
Ma sono rimasto invece invischiato nei fumosi cunicoli, corsi e ripercorsi all'infinito, a sbirciare anch'io come il piccolo Hugo (bello e algido - ed ignobilmente fasullo quando si dispera perché l'automa s’ingolfa sul disegno -), che tracce di nuovo cinema rifiorissero dalle ceneri delle celebrate, magiche, origini.
Ed anche incartato a lungo (troppo) nel patinoso ossequio di grezza tridimensione (ulteriore “ultima tentazione”?) a tentare un elementare quanto futurista riscatto, tra leggendari razzi nell'occhio della Luna
e le fin troppe locomotive a piombare in stazione; caricato a molla come i meccanici orologi della Belle Epoque, ma mai disinnescato, mai fuori dalla scalo cartapestato a stantuffare finalmente in volo libero.
Questo voluttuoso e nostalgico cinepresare scorsesiano che scava negli archetipi del cinema che fu, a metà tra circo e magia, mi rimane inesorabilmente inceppato, schiavo di una l(a)eccata referenzialità, automa mummificato anch'esso.
In disperata ricerca di una chiave che
a forma di cuore,
per troppi versi, presenta solo una luccicante ed oliata toppa.
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