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Tadej Pogacar |
In questi giorni occhio famelico al Giro d’Italia.
Una storia che si rinnova, che si offre sport alternativo, tifo verace anche se
in rari casi, incosciente; fatica inconcepibile per infiniti altri sport.
Biciclette che vanno a muscoli; nessun passeggio, nessuna pedalata “assistita”,
spesso nessuna strategia, solo foga forsennata, fruscii di catene e ronzio di
copertoni a ingoiare gelo e caldo afoso, asfalto, sterrati, e poi sanpietrini,
sudore.. chilometri a ingurgitare l’Italia, ridisegnandola e lasciandone fuori
fin troppa, e troppo spesso al sud.
Ma noi affezionati ci godiamo le stradine e i vialoni, le rotatorie aggirate,
le salite assalite, le discese scivolate, ci agitiamo per una caduta, o una
grandinata imprevista, infiniti sprint intermedi per assegnare maglie di tutti
i colori possibili (ma quella a pois del Tour mi piace un casino!), le volate
per il quindicesimo posto, il vincitore che scende dalla bici e sale sulla
cyclette per sciogliere tossine e acido lattico, il ciclista semisconosciuto che il
gruppo fa passare da solo nel paese d’origine e un altro po’ gli preparano pranzo e concertino, sei/sette ore di fatica giornaliera inconcepibile per
qualunque altro sport se non quelli estremi che si chiamano “estremi” per
vantarsi.
Nel ciclismo, invece, di estrema c’è la passione di chi lo pratica (aria,
pioggia, nevischio in faccia ed il mondo che ti rotea attorno ma ad una
velocità che rende lui percepibile e chi pedala piacevolmente attento), la
passione di chi lo segue e basta (magari praticandolo molto meno di quanto dovrebbe: io), ore e ore in attesa sul ciglio di strada per
vedere passare per un attimo un sussurro iperbolico e colorato di uomini e bici..
un attimo di follia pedaliera, di occhi voraci, di muscolo teso, e poi di
nuovo silenzio per ripidi tornanti, e inizio a gustarmi quei
silenzi, ogni anno una parentesi di gioia per uno sport anomalo.
E anche il consueto commuoversi davanti alla tv.