Qualcosa non
convince.
Non c'è
l'alieno, perlomeno quello evoluto, al quale ambivi da sempre, la
comunicazione che ti aspetteresti, il Contact che sapevi, di
Interstellar manco l'ombra dove brancolano i melliflui marzianoidi.
C'è quel
gioco, spesso evocato dal film, a somma zero.
Man mano che
la pellicola avanza, tu non perdi e la storia non guadagna.
Un pareggio
annunciato, soffuso come le nebbie, indecifrabile come i messaggi,
inchiostrato come la scrittura aliena, macchiato di evidenze non
evidenti, tradotto come un sanscrito polveroso, che alla fine
comunica messaggi ambigui affinché gli spettatori facciano - un po'
come i bambini di Povia - ooh!.
Gli alieni
evoluti scarabocchiano vetrate cercando di cose che già sanno,
insegnando un futuro spiegato, a metà film dicono che fra tremila
anni sarà l'uomo a dover salvare loro, e a quel punto potresti anche
andare a vederti Silence nella sala a fianco della multi sala che
ospita multi film con multi futuri e multi candidati ai multi Oscar.
Tom &
Jerry negli Usa, Ficarra e Picone in Italia. Così vengono
soprannominati i due amici multitentacolari. Dodici baccelli giganti
portano in dodici luoghi diversi di un mondo ancora troppo spesso
estraneo a se stesso, la richiesta e, contemporaneamente, l'offerta
di aiuto.
Prevarrà la
collaborazione, la paura, la curiosità, il timore, la voglia di
sapere, il terrore di essere sopraffatti?
Un film già
visto. E che si è già visto. In tutti i sensi.
Sia
dall'inizio che dalla fine, sia da destra che da sinistra, come la
scrittura a due mani evocata da Amy la linguista, dove entrambe (le
mani) devono già conoscere tutto il discorso per potersi intersecare
(ma qui rischiamo lo spoiler e allora ci tacciamo).
Eppoi le
musiche pericolosamente mutuate dai Dead Can Dance, la fotografia
frantumata di nebbia, i movimenti rallentati che reclamano gravità.
Ed un gioco
come il mitico Tris di War Games. Un gioco a strategia perfetta,
dove, se giochi con criterio, non perderai e non vincerai mai.
Oppure
decidere di voler scientemente perdere per assaporare la strada
fantastica (non si dice sempre che la vera meta è il viaggio?) che
condurrà, comunque, al baratro.
Ecco un buon
messaggio veicolato da Arrival: il criterio non come scienza
applicata, ma come opzione, emancipazione di quell'arbitrio del quale
spesso ci facciamo scudo e paladini.
Ma il meglio
del film è il canguro che si chiama “non lo so”.
Quello
davvero illuminante.