Che
io mi sia pianto copiose lacrime, stavolta, rende tutto
maledettamente soggettivo nel descrivere atmosfere, coinvolgimenti,
storia, significati. Ma ogni film, ogni opera d'arte scava
nell'anima di chi è disposto a mettersi in gioco, di chi si lascia
tirare dentro.
Vorrei
innanzitutto rivolgermi a chi archivia Interstellar come film di
fantascienza voltando dalla sua vita una pazzesca pagina di Cinema.
La
fantascienza di Interstellar è solo nella modalità di fare cinema.
Dieci anni avanti tutti gli altri che smanovellano con le loro
cinepresine fornendo le pellicole della sala attigua.
Ecco,
proprio a voi della sala attigua mi rivolgo.
Voi
che “No, a me la fantascienza non piace”.
Bagnatevi
occhi e anima di futuro e non perdetevi questa semplice meraviglia.
Messaggio
universalmente percepibile, seppur patinato di campi gravitazionali.
Una
storia di intenso amore, come può esserlo quello tra genitori e
figli, abilmente celata dietro la maschera dei cunicoli spazio
temporali e le pieghe magiche di un mondo a cinque dimensioni.
E
si va nello spazio solo dopo un'ora di “fantascienza”.
Prima
si affoga nella sabbia terrestre, in un mondo allo sbando senza più
risorse, che può trovare universo vitale solo tra le sue stelle,
sfidando buchi neri e galassie vivibili.
E'
un filmare prolisso come la polvere e la sabbia che si accumula sui
mobili, tra le stoviglie e nei polmoni.
Serve
quella lentezza di mondo in disfacimento misurato col nostro tempo,
in contrapposizione agli anni luce che schizzeranno via veloci e
feroci nella loro impotenza, in quel vagare furioso, come una caccia
al drone - inserto di palpitante cinemare - scorrazzando tra le
pannocchie a bordo del pickup.
Serve
il conto alla rovescia della navicella in rampa di lancio, col
sottofondo di musica e camera a rigare la portiera del furgonato
che porta via Cooper dalla sua fattoria (altra scena cult: questa è
l'arte di Nolan), tutto per far si che la sua famiglia possa
(r)esistere.
Soffriremo
i dialoghi con la figlia cresciuta contro tutte le leggi naturali,
come per quel nipote mai visto e già sepolto prima di poter essere
salvato, quelle lacrime che sgorgano lente ma racchiudono anni di
rapido evolversi terrestre, di rughe tangibili, di mondo in rotta di
collisione con se stesso e aggrappato ad un messaggio gettato nel
nulla cosmico.
Soffriremo
l'intersecarsi delle dimensioni che solo il cinema - certo megacinema
- riesce a trasmettere, e il Nolan affascinato dall'illusione del
messaggio, rimane maestro indiscutibile.
Il
paradosso scientifico rimane solo una scusa a precipitarci nel gorgo
dei sentimenti umani che guidano la vita, o più spesso la prendono
per il collo.
Partecipiamo
così ai tentativi più folli per far si che l'uomo progredisca,
mischiati alle miserie provocate dai nostri istinti.
Siamo
parte attiva del viaggio dentro di noi, della navicella accuratamente
costruita da Nolan per noi, come fossimo anche noi dei robot/marine
settati manualmente a diverse percentuali di
comicità/sincerità/confidenza.
E
seguiamo fiduciosi carte astrali magnificamente manipolate.
E'
un'altalena di sensazioni, un salto nel buio dell'iperspazio espanso
che può anche scricchiolare scientificamente, come pedantemente
rilevato da quelli che guardano il dito, ma che fa appello a
sentimenti, contraddizioni, speranze e paure che mastichiamo
quotidianamente.
Eppoi,
per quanto incartati nelle pieghe della gravità, vera fonte e
origine del nostro minimo vagare, quella gravità che può
risucchiarci in un buco nero o tenerci appiccicati alla poltrona del
cinema, la vita si riduce ad un assioma - sembra sottolineare Nolan -
che esula ogni più contorta equazione, e che ci riporta a Murph, la
dolcissima e tenace figlia di Cooper, intrattenitrice di sogni e
fantasmi.
“Tutto
quello che può accadere, accadrà”.