Un narrare che prende a pretesto il
giallo, ma si rivela indagine sociologica, introspezione di memorie, minuta guida
turistica anche perché si svolge a Scauri, ultimo paesino di mare a dividere
Lazio e Campania, ma dove, in realtà, si parla, si pensa, si mangia e si vive già
napoletano.
Chiara è nata a Scauri, la differenza con chi, come me, ci viene
solo in vacanza, seppur da oltre sessant’anni, è nell’approccio. Per uno
scaurese la stazione, ad esempio, è dove si parte, dove si cerca di trovare
vita e lavoro altrove, per noi che abbiamo una memoria vacanziera di Scauri, la
stazione è arrivo in paradiso, e la partenza condanna.
Chiara scrive come
pensa, la punteggiatura infastidisce, il virgolettato dei dialoghi orpello
inutile.
Si guadagna in percezione, in apparente scorrevolezza, ma spesso bisogna risalirle certe
frasi, certi concetti, certi pensieri che si aggirano tra le case a due piani e
gli stabilimenti scrostati.
C’è un passeggiare pacato che si bea delle
mareggiate, delle nenie da chiesa bigotta, degli sguardi sommessi dei vecchietti
davanti ad un bicchiere di bianco sulla Via Appia, a contare i tir incessanti.
Scauri, carico di quella “grazia
scomposta”, come luogo ideale per un nulla che riempie il consueto e una morta
che vorrebbe riposare in pace.
E così la storia si orna di giallo, ma è solo
una scusa per raccontare di quelle seimila anime che d’estate diventano
centomila e fanno fatica a riconoscersi nel frettoloso rincorrersi tra monte d’Oro
e monte d’Argento, guardando, dicendo o tacendo, e io a rivivere gli amori allo Scoglio, i mercati americani
sotto la Sielci, l’uva rubata al Garigliano, le salite a Minturno, correre in
cuffietta al mattino su quel lungomare che amo con gli aromi di frolle e
sfogliatelle a riempire l’aria, “l’infilata dei lidi, le case disordinate e
agglomerate”.
Come afferma Chiara: Scauri esiste. E ascoltarne storie, facile.
Io che sono un cultore di Aprile è piuttosto un tradimento la partenza. Tradimento verso la propria terra: partire non significa solo lasciare un luogo, ma spezzare un legame, rinnegare un’appartenenza. La stazione non è un varco innocente, è una ferita che si apre, un atto di infedeltà al paese che ti ha cresciuto, al mare che ti ha dato respiro, ai gesti che ti hanno formato. Lo scaurese che parte porta il peso di aver abbandonato un “noi” per inseguire un “altrove”. Non una condanna esterna, ma una colpa che si consuma: lasciare i vecchi davanti al bicchiere di bianco, il rumore dei tir sulla Via Appia, gli odori del lungomare. È come se la terra, restando immobile, sentisse ogni volta di essere tradita da chi la lascia.
RispondiEliminaE ad eccezione di quei pochi che cercano la partenza per arricchirsi di sapienza e arricchire gli altri con i loro scritti, tutti gli altri tradiscono per arricchire i loro padroni.
Penso di aver trovato il mio punto sulla stazione, solo sulla stazione. Il resto lo lascio agli altri commentatori.
G
Mi piace questa recensione “da dentro”, da chi sa i luoghi e gli abitanti. E mi piace la differenziazione che fai tra te vacanziero e Chiara, scaurese di nascita, due punti di partenza opposti, lei ha notazioni incentrate sul fuori stagione, tu sui mesi estivi, lei calca più sulla desolazione invernale tu sull’entusiasmo dell’arrivo.. l’ho letto un anno fa, a suo tempo mi era piaciuto, più per l’ambientazione che per le vicende dei protagonisti, ma a distanza di un anno della lettura mi è rimasto poco.
RispondiEliminamassimolegnani