martedì 25 giugno 2013

L'ESTREMO LIMITE DELLA NORMALITA'


L'insostenibile leggerezza dell'essere può nascondere la stanchezza del vivere, od il rilassamento dinanzi all'ineluttabile ed all'impotenza nell'affrontare gli eventi. 
L'estremo limite della normalità confina fatalmente col baratro dello sconosciuto e dell'improbabile. 
Limite che crediamo invalicabile. 
Fino al momento in cui è proprio lui 
che si prende la briga di valicarci.





DELITTO TRA LE RIGHE
Tra le righe può celarsi l'assassino, che trama tra i paragrafi e cerca alibi al capitolo successivo, ed all'ultima pagina non potrai chiederti chi è che uccide, perché sarai già morto.

L'IMPOSTORE
Eccolo il prototipo dei The Mentalist e dei Lie to me. Ti brucia con uno sguardo, Ti spoglia l'anima e te l'appende per il cambio di stagione. Riscoprirai quello che hai voluto dimenticare. Conoscerai quello che non hai mai voluto sapere. A te conviverci, ora.

INSOLITI CRIMINALI
Buoni e cattivi. Cattivi e buoni. Le componenti s'intersecano ed impazzano. Ma è sempre stato cosi. E tu sei un buono od un cattivo? Non chiedertelo a voce alta... potresti avere brutte sorprese.

MON ONCLE D'AMERIQUE
Topi in trappola. Ecco quello che siamo. Esperimenti da laboratorio. Cavie senza speranza. Qualcuno si diverte da qualche parte...


SHINE
Spaccalo quel pianoforte. Uscirà nettare strizzato dallo strazio. A volte non puoi dare senso al dolore che avvinghia. Ma adornarlo di colonna sonora. Quello si.


L'UOMO DEI SOGNI
Ogni sogno ti si infrange in mano al risveglio strappandoti dal paradiso. Devi solo sovvertire le coordinate. Viverlo quel sogno, trascinartelo all'inferno.

BIRDY
La pazzia percorre vie meravigliose, spesso scorciatoie per l'eternità, l'idiozia quelle per la maledizione. Se sei pazzo è già mezza salvezza, perché quell'estremo limite di normalità, ce l'hai alle spalle... 

IL PIANTO DI UN BAMBINO


Poche cose possono essere più insondabili e disperate del pianto di un bambino. Come se nel suo pianto si raccogliesse tutto l'indicibile dolore dell'essere soli e vivi.
Ne ho un'esperienza personale. Molti anni fa, di ritorno a casa a notte alta nell'antica strada romana dove abitavo, il silenzio era rotto dal pianto dirotto di un bambino nascosto tra il muro di casa e le auto in sosta. Era il piccolo venditore di stringhe che nel quartiere tutti conoscevano. Inutile cercare di capire la ragione del suo pianto ostinato ed ogni tentativo di consolarlo comprandogli tutte le stringhe del suo vassoio di legno aveva avuto per solo risultato un testardo voltarmi la schiena senza smettere quel suo oscuro pianto finché, per non essere più infastidito, se ne era andato a piangere dietro un'altra macchina più lontana. Nell'insieme un piccolo ricordo che misteriosamente mi avrebbe accompagnato negli anni legato ad ogni bambino che piange. Perché tutti i bambini che piangono ad ogni angolo del mondo sono lo stesso bambino. Siamo noi. Soli e vivi. Allora e sempre”. (Gianfranco Calligarich)


Propedeutica premessa al mio, personale, ricordo:
Proprio l'estate scorsa, in una serata afosa di quelle che solo certa periferia romana può dispensare, c'imbattemmo (ero con mia moglie invitati a cena da amici) in un ragazzino disperato e dal pianto dirotto, fermo sul marciapiede come in attesa di qualcosa, pantaloncini e petto nudo, sei sette anni al massimo.
Avevamo appena parcheggiato ed ora, a motore spento, nel silenzio di quella fetta di Roma semideserta, l'eco del singhiozzare risuonava inquietante.
Mi avvicinai per chiedere cosa era successo: “Ho perso il mio papà, è uscito a portare il cane nel parco e sono rimasto chiuso fuori di casa”.
Potevamo lasciarlo cosi? Parlava male italiano, l'inflessione era slava o albanese, il viso dolcissimo, me lo sarei portato a casa, giuro; cercammo di capire dove potesse essere questa casa e lui s'incamminò per i dedali di questi cortili tra palazzoni pachidermici, dove le comunità convenzionali, e spesso succede nelle periferie sovraffollate, incrociano comunità irregolari, dai lavori precari e dagli ambigui sostentamenti.
E noi seguivamo il bimbo verso questi confini mai esplorati, a dir la verità, oltre le rassicuranti colonne d'Ercole del quartiere conosciuto, con qualche apprensione, tanto da far dire a mia moglie: Non è che si tratta di una trappola per rapinarci? Ed io subito a scacciare l'insano pensiero, ma senza essere, in realtà, affatto tranquillo.
Ci allontanavamo dai circuiti consueti per inoltrarci in una zona franca, di abitazioni arrangiate, spesso a livello terra o di seminterrato, a sfruttare locali per esercizi commerciali concepiti in origine per un ipotetico passeggio da shopping, ma presto ingoiati dal degrado.

Cittadinanze ibride, strati sociali dal disagio tangibile a vista, e noi appresso a quel ragazzino che, d'improvviso, si blocca davanti ad una porta creata dal nulla sull'entrata di un potenziale negozio di quartiere modello: magari solo nelle intenzioni dell'urbanista ispirato, un tizio che semina cemento dove attecchirà indigenza.
Attorno panni stesi in residui giardinetti condominiali fantasma, indigeni che ci guardano strano, a noi: pasciuti frutti dell'opulenza integrata - lavoro vacanza cinema ristorante casa lavoro e di nuovo ancora, in quel ciclo incurante, che non sa del resto del mondo che va tre a cilindri, a due o anche meno -.

Suono al campanello. Nulla. Dentro intravedo luci fioche. Ovviamente niente finestre, la saracinesca è stata tolta per far posto ad una parete di cartongesso con porta annessa.
Una delle innumerevoli abitazioni che sfuggiranno a censimenti ipocriti.
Si avvicina una ragazza con passeggino e bimbetto relativo, chiama il “nostro” ragazzino per nome e lui che continua singhiozzare; è albanese, ci spiega, io il nome non l'ho ancora capito ma è come se lo avessi con me da una vita. Le dico che avrei chiamato la polizia, mi guarda come se avessi parlato di marziani.
Avrei quasi preferito che nessuno lo riconoscesse nella mia fantasticata adozione-lampo-fai-da-te.
Ci confida di genitori e fratelli poco raccomandabili e poco presenti con lui, il bambino, sempre a spasso per il quartiere e dintorni, e che non dobbiamo preoccuparci, lo prende lei in custodia, lo verranno a riprendere, è abituata; tutti sono abituati cosi, i cuccioli del branco li gestisce la collettività, questa collettività al margine, al margine dello shopping, delle vetrine, delle vacanze, del resto-del-mondo.
La salutiamo ringraziandola, e salutiamo lui, stropicciandogli i capelli crespi, mentre si asciuga i lacrimoni, venendo via con un sorriso malinconico stampato sulla faccia.
A pensarci - all’epoca - che quel ragazzino eravamo noi, soli e vivi. Allora e sempre.
E da quell’allora, ogni volta che ripasso nei dintorni, c’è un pensiero in più che torna, un sorriso che combatte con le lacrime.
Uno ricordo straniante.
Di quelli che restano bambini.




DISCONTINUITA'


Il nuovo trend politich(aziendal)ese si riempie la bocca, ultimamente, di riferimenti continui (scusate il bisticcio) alla discontinuità
Fino all'altro ieri “assenza di costanza”, in una accezione denigratoria universalmente riconosciuta, oggi sinonimo di frattura e repentino cambio di direzione, rinnovamento, riforma, riorganizzazione, spirito moderno.

Anzi che ci abbiano risparmiato la solita anglofobia arruffata; ora si pesca direttamente dall'italiano incruschito, da rivalutare con libera interpretazione.
Anche Benedetto XVI si è affidato all'Ermeneutica della continuità e della riforma in contrapposizione ad un'inquietante Ermeneutica della discontinità e della rottura (chissà come saranno soddisfatti i bimbi che continuano a morire di fame e stenti - sempre uno ogni cinque minuti precisi, ma nessuno in Svizzera -).
Fisicamente il mondo è già una discontinuità per suo conto, ma parliamo di fotoni ed elettroni, di sequenze on/off (tanto per non tradire il rigurgito anglofono).

Ed intanto, sul piano di questa presunta, mirabolante e decantata discontinuità, non si muove una foglietta che è una ed al massimo apre un ministero del Monopoli a Monza, o si polemizza sulle 40 macchine blu a disposizione del Colle (“sono solo 35” recita una laconica replica da brividi dello staff presidenziale), o si tengono le camere aperte ad Agosto (e quei poveri parlamentari che hanno prenotato le Seychelles?!?), ma vuoi mettere discontinuità con innovazione? Tutta un'altra musica...



Ragazze interrotte

Gli irregolari di North Avenue

...e DIScontinuavano a chiamarlo Trinita'





IL CRITICO CASERECCIO


Simpaticissimo l'inventario del luminare, in campo di esegesi cinefila, Roberto Escobar, sul Sole 24 Ore (Fenomenologia del critico - domenica 25 sett 2011 -), riguardo le tipologie di critico cinematografico, ove, con notevole arguzia, si cerca di sviscerare vizi e carattere di chi vuole (o pensa di) scrivere di cinema.

Mi sono un po' riconosciuto, indegnamente, in tutte le parodistiche figure proposte e, irriverentemente, ne aggiungerò qualcuna.
Ma ecco nel dettaglio le diverse tipizzazioni:

Il critico scienziato: demolisce il film, ne saggia la sostanza fino a produrre una sentenza inappellabile, a prova dei neutrini che sorpassano la luce in galleria (quella sovvenzionata dalla Gelmini..)

Il critico imbonitore: ovvero il critico da locandina, foraggiato dalla casa produttrice o, comunque, posseduto da un'aura di raptus buonista/entusiastico.

Il critico agrimensore: colui che misura il film a peso: tanto di luce, poco di grasso, tot dialoghi, un mezz'etto d'azione. Se sforate vi boccio, guai a voi! Il prontuario del “piccolo regista” parla chiaro.

Il critico prete: media tra la volta celeste ed il pantano degli spettatori. Officia, più che recensire. A contraddirlo c'è il rischio scomunica.


Il critico profeta: ha una missione per conto di Dio mentre versa oro colato a forma di giudizio (ma, a pensarci bene, é proprio lui Dio...)

Il critico sociologo: addobba il film di riferimenti sociali, storici, cronachistici, empiricamente verificabili. Non vendetegli sogni in celluloide. Ve li stroncherà.

Il critico riassuntore: (ce ne sono un botto anche su FilmTv), ti raccontano tutto il film, un fotogrammino alla volta, ed a seconda delle disposizione di virgole, accenti, ed apostrofi, dov(r)ete capire (forse) se gli è piaciuto o meno.

Il critico massacratore: demolisce il film ma non con l’intento del critico scienziato, che ne esamina fibre ed intelaiatura. Lui lo smantella appositamente per disfarlo. Punto.

Il critico apprendista: si avvicina al Recensore Ideale, nasce timido spettatore ma commette l'Errore: non si diverte, è schiavo del Giudizio, pesa il film ed invece di vederlo lo scruta, con sospetto e malanimo, cerca l'inganno auto ingannandosi, non riesce a godersi lo spettacolo innescando quello che, felicemente, Escobar definisce il servocritico, quell'apparecchietto mentale che, come l'ABS, entra in automatico e ti fa rilassare in poltrona, abbandonandoti in sintonia con tutti i messaggi che traspaiono (o desiderino trasparire) dallo schermo.

Il critico superspettatore: è super partes, spogliato di ogni pregiudizio, disposto a violentare le sue beghe mentali, riconosce magari ad una sola particella di se la capacità di assaporare Cinema in stato di grazia, quella grazia che serenamente contraddice i suoi istinti famelici come anche le sue migliori intenzioni, quella, seppur minima, particella disposta a farsi Sorprendere. Nel Bene o nel Male. E’ lo spettatore che non mette le mani avanti, che salta nel buio della sala, conscio di essere comunque accolto, perché bisogna fidarsi quando pensi ci sia feeling (altrimenti meglio non andare al cinema, neanche il mercoledi a prezzo ridotto).



Ma c'è ancora una categoria.
Cui appartiene il critico che vede l'unico film esatto, quello che neanche il regista immagina, consciamente, di aver girato.
Ed è una categoria a parte, oserei dire La Categoria.
Un insieme di scienziato, imbonitore, agrimensore, prete, profeta, sociologo, riassuntore, massacratore, apprendista, superspettatore.
In una parola: Il critico checcecrede.

Ed è questa che, certosinamente, modello.
Alla faccia di tutte le modestie.