martedì 18 febbraio 2014

SETA



Tornate, o morirò”


Hervé gioca coi bachi da seta e quando un’epidemia ne decima la produzione, non gli resta che recarsi fino in Giappone, terra misteriosa e sconosciuta dove l’essenza femminile orientale gli manderà cuore e cervello in tilt rendendolo insensibile ai ritmi e consuetudini della vita occidentale.
Ha una moglie, Hervé, che l’attende al termine di ogni viaggio, e ne decripta, silenziosa e sfumata, sogni e desideri.

Alla moglie Hélène portò in dono una tunica di seta che ella, per pudore, non indossò mai. Se la tenevi tra le dita, era come stringere il nulla”






Hervé, al contrario, interpreta a malapena le sue, di passioni.
Le accarezza come seta, e come seta gli sfuggono nascoste tra le elusive promesse di un paese in ebollizione storica e dalle dinamiche sentimentali simili ad un cubo di Rubik.
L'Hervé abituato ad assistere alla giostra pacata della sua esistenza, stava salendo su di un vorticoso ottovolante.

Trovò Baldabiou al biliardo. Giocava sempre da solo, contro se stesso. Partite strane. Il sano contro il monco, le chiamava. Faceva un colpo normalmente e quello dopo con una mano sola. Il giorno che vincerà il monco, diceva, me ne andrò da questa città. Da anni, il monco perdeva.”



Tornerà definitivamente a casa a sciogliere l’enigma della sua vita che distanze e misteri avevano duramente provato, facendo combaciare tasselli dimenticati ma indissolubili chiavi di volta.
Un racconto/romanzo dalle eloquenti pause.
Dal fare ambiguo, che cavalca sempre a margine del sentiero ed a colpi di silenzi tenta di scardinare le immobilità di lago.

- Io andrò in Giappone - disse Hervé. 
Baldabiou non se l’aspettava, era come vedere vincere il monco, all’ultimo colpo, quattro sponde, una geometria impossibile.”

Perché l'Amore - ovunque - è discreto, non fa scena, comprende tutto mantenendo un profilo bassissimo, ed i toni smorzati. 
Evita i riflettori preferendo il lavoro oscuro ma necessario.
Si nutre di un circolo vizioso condannato a rincorrersi.

Non morirà, e voi lo sapete”





domenica 16 febbraio 2014

A PROPOSITO DI DAVIS (2014) il film che non c'era...


I Coen prendono una cantonata stavolta, incartandosi nella parabola intimista che vede coinvolto il nostro Davis, menestrello folk in cerca di sbocco artistico ed economico.
Una sola folgorazione filmica con il loop che unisce il nastro di Moebius della storia e poi uno stanco evolversi dove il genio del “regista a due teste” tenta di innestare un'andatura diversa ma viaggia a tre cilindri con questo Davis che vorrebbe ma alla fine, più che non può, non vuole proprio uscire dal suo bozzolo di nulla.


Un punto in comune con l'Alex intothewildiano ed il Degan centochiodiano: ribelli ma sempre col dollaro in tasca, magari non per l'albergo, perché qualcuno che ti ospita lo troviamo sempre, ma per far fronte a gravidanze indesiderate del rapporto di turno, o per il salto di vita che magari c'imbarca e ci cambia genere di vita, anche a costo di abbandonare quel palco che sembra, unico, donargli tepore e serenità....


in fondo fino a Chicago ci siamo andati per un rassicurante provino (anche se tormentati dalla morte del nostro ex partner di gruppo “suicidatosi dal ponte sbagliato” come insegna un Goodman forse già con la testa a Monuments men..), e se al Salieri produttore fosse piaciuta la musichetta folk del nostro eroe che gira il mondo come il gatto Ulisse (altra smaccata e debole simbologia...) che lo segue e non lo segue, lo struscia e lo fa fesso, saremmo qui a discutere magari di un altro Bob Dylan, con ricco conto in banca.


Molto dolce Carey Mulligan, anche se in una parte ristretta ed antipatica - il pezzo in panchina sulla paternità del figlio è un altro dei rarissimi siparietti riusciti -, ma ci aspettavamo di più, 
oh se ce l'aspettavamo!!..

il folk impasta tutta la pellicola ma Hang me, oh hang me la canzone del bello essere impiccati, assieme a Please Mr. Kennedy sembrano le uniche con l'autentica marcia in più, quindi rimboccarsi le maniche, cari Coen, ed in bocca al lupo per un film in po' più serious..


sabato 15 febbraio 2014

THE WOLF OF WALL STREET (2014) Vendimi un film...



Come ti vendo un film”, sembra ammonire Scorsese, puntando tutto sul restyling (?!) di un qualsiasi American Pie - un ossimoro azzardato -. 
La storia (vera) di Jordan Belfort, brooker d'assalto prototipo rudimentale tutto chiacchieraesorriso degli attuali maghetti della finanza da paradiso fiscale, che spicca il volo praticamente dal sottoscala a botte di penny stock (azioni spazzatura) e finisce gestendo esclusivamente spazzatura (umana e non).

Il film sarà pure frenetico e concitato ma spesso s’impalla nei suoi reiterati vortici episodici e rischia l’avvitamento a precipizio, come nelle ripetute arringhe alle folle osannanti, dove DiCaprio mette su il ghigno baubau o quella spocchietta di marca deniresca che lo porterà, ahilui, lontano dall’Oscar; meglio allora quando la moglie lo sveglia a bicchierate d’acqua, tirandogliele a ripetizione, lì ho visto il Leo sorpreso ed incazzoso, nature direi; ma più spesso il pupillo del Maestro Che Vende Film procede tra il gatsbyzzato o lo shutterante, come se il buon Martin lo muovesse a mezzo fili, e tutti ben visibili.


Tutta la baracca punta spedita alla desensibilizzazione dello spettatore, creando dipendenza artificiosa, un procedimento che ai Tarantino riesce una favola, agli Scorsese magari un po’ meno, visto che non si tratta di sdoganare sangue a litri ma circa 500 vaffanculi (cit. da CannibalKid) cosparsi di fregole sessuali ed equamente sfrantumati per tutta la pellicola.

Oddio, alla fine non li ascolti manco più, confondi tette ed indici di borsa e non ti rimane chiaro se si voglia sberlinare il Belfort oppure, col ghigno reiterato del DiCaprio produttore, lo si esalti ancor di più, come con la fila di neo brookers che sbavano per essere ammessi a corte.

La rudimentale haka che sancisce il passaggio dall'effimera fase onesta al tuffo nella dissolutezza senza confini, con l’etica finanziaria calpestata sotto i piedi, tra un Martini e l'altro alternate ad una sana esaltazione onanistica, dal buon McConaughey.. (che come cameo non batte certo il De Niro di cui sopra, mafioso doc in American Hustle), quell’haka dai selvaggi richiami, dicevamo, è l’emblema della celebrazione catatonica che non guarda in faccia a nessuno e che sproloquia e sprofonda negli eccessi più convulsi creando assuefazione come un tiro di coca su una chiappa inarcata, confezionando, in contemporanea, una dimensione falso/ sgangherata dove i velocissimi 180 minuti inducono lo spettatore ad elevare a cult, non si sa bene in base a quale acido sintetico emanato quadrimensionalmente dallo schermo, scene come Jonah Hill che piscia nel cestino o l’orgia sull'aereo più pazzo del mondo o la barca affondata dalla tempesta con la nave italiana che salva i superstiti, (al suono di Tozzi e la sua Gloria a tutto volume, mancavano gli spaghetti e il mandolino, strano però...), o anche la - godibile lo ammetto - scena di guida completamente anchilosato causa assunzione di quaaludes scadute.. eh eh..


Meglio, allora, il pezzo dove si giustifica la cena da ventiseimila dollari, un altro input tarantiniano preso a prestito, ed anche ben svolto, a dir la verità, ma sempre di smaccato plagio trattasi... mentre nelle scene dove Leo dovrebbe emergere, come sul batti e ribatti col poliziotto che lo va a trovare in barca, è quasi quest’ultimo a farci bella figura.. a meno che il suo lato B, che DiCaprio sfoggia al termine della sua “festicciola” d’addio al celibato, non sia realmente il suo lato migliore

Tutto, comunque, sempre didascalico ed in funzione di.

Senza un freno, un ripensamento, un dubbio.
Sembrano disegnati, Belfort e i suoi accoliti, forse solo alla fine, nel tentativo di strappare sua figlia alla madre, DiCaprio regredisce a carne debole col rocambolesco tentativo di fuga in macchina (però ‘nartra bustina de coca nel cruscotto avrebbe risolto secondo me.. strano che Martin non c’abbia pensato.. )


Siamo lontani appena un decennio dalla futura finanza magica che si ciberà di paradisi fiscali ma Belfort ti vendeva almeno una penna, magari truccata da Parker, ma era come restare in famiglia, una fregatura colloquiale, una stangatina condominiale.

Ora è tornato a sbellicarsi Scorsese, e Leo a far di conto reale coi suoi magici incassi, cercando di rientrare (e certo ce la farà) dai soldi spesi.

Tutti contenti, anche noi alla fin fine.. ma tra un po', quando l'adrenalina scemerà, diamola una grattatina alla patina d'oro che ricopre queste penny stock...




mercoledì 12 febbraio 2014

SE DICO CINEMA...



"Ne parliamo tutti i giorni, fracassando le balle a mezzo mondo, non per forza cinefilo. Ci scanniamo, difendiamo i nostri eroi, dando vita a discussioni che...manco Freud. Ma alla fine nessuno ancora ha spiegato un dettaglio, il più complesso forse. 'Sto cinema, ma che sarà mai? Cosa significa. Cosa vi dà. Cosa rappresenta. 
Dunque, Se dico cinema..."

Spettacolare l'iniziativa 
di Valentina Orsini che spalanca scrigni socchiusi dando vita ad una scia di emozioni come non leggevo da tempo...  

grazie Vale... 




Se dico cinema..

..dico due ore rubate al mio mondo di fuori,
fino ai titoli di coda
slurpati come una scarpetta a fine amatriciana.


Se dico cinema sono diventato già magico
e senza bacchetta creo e disfo
e la pellicola esce dagli occhi
ed entra nello stomaco
mischiandosi agli incubi più grezzi.


Se dico cinema vedo quelle sale di seconda visione
col tetto apribile all'intervallo ed il fumo denso che fila via
e chiamo il ragazzo del popcorn 

e della Bomboniera Algida



Se dico cinema
dico passare quattro ore prima in sala per “prenota' li mejo posti
dico custodire la matrice del biglietto per attaccarlo sull'agenda
e non dico solo vederne, 

ma leggerne e, soprattutto, scriverne.



Se dico cinema
respiro come fuori da un'apnea
odoro poltrone vuote
ed uno schermo bianco
con una cinepresa a manovella che
riflette il mio mondo di dentro.




lunedì 10 febbraio 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO (2014) .


Era un bel po' che il cinemello italiano non tirava fuori qualcosina di effervescente, supportata tra l'altro da attori navigati ma tutti di seconda fascia, comprimari di fiction e cinema minore, assemblati dall'esordiente Sibilia con sagacia e perfetto equilibrio, in questa avventura alla Ocean's Eleven ricca di personalità, di sarcasmo e di fresche trovate dove i richiami ad Una notte da leoni si sprecano, con Fresi che zafianakiseggia alla grande ed Edoardo Leo alter ego di Bradley Cooper con venature alla Morelli.


La banda di ex universitari, tutti di gran talento (dagli antropologi ai latinisti ai neurobiologi) e dalle verbosità stilistiche surreali, mette su un piano per spacciare una nuova droga sintetica e finalmente si dà alla pazza gioia (la scena in cui Piero confida ad una escort russa la sua futura paternità - e qua farò inorridire gli infiniti estimatori scorsesiani - brucia nella sua inaspettata prurigine quasi tutto lo sfacciato The wolf).

Il film fila via e se la cava egregiamente anche quando sembra che si incanali in un cul de sac sceneggiatoriale.
E' vero che in sala si sente ridere molto quando scatta la parolaccia, ma per fortuna non si abusa e sono poche le occasioni per rinverdire l'immarcescibile vezzo italico, al contrario le gag ed i dialoghi si supportano vicendevolmente sempre con verve e montaggio frenetico e lo spaccato di realtà affrontata, che si ribella all'impotenza del nostro asfittico mercato del lavoro, non si allontana dal cogliere l'effettivo stato delle cose, con i nostri laureati costretti ai lavori più disparati per riuscire a pagare le bollette.



A navigare tra questi ottimi caratteristi in gran spolvero - Edoardo Leo e Stefano Fresi su tutti -, anche la Solarino (che adoro a prescindere) oltre ad un Neri Marcorè che si “macchietta” col giusto eccesso che richiede l'occasione (ed ogni riferimento agli eccessi dei capitali umanoidi non è per nulla casuale) divertendosela da matti nei panni di un truce boss da quartierino. 
Ed anche se il trailer si brucia le cartucce migliori i cali di tensione sono impercettibili e la storia appassiona, e con l'esatto gusto della novità, evidenziando come i cinepanettoni e le tremende frescacce da commediola italica possano essere parcheggiati, per una volta,  a distanza di sicurezza.



sabato 8 febbraio 2014

BAGDAD


"Accadono eventi stravaganti in una vita: innamoramenti, lotterie, terremoti, rime inspiegabilmente perfette. Qualche giorno fa mi è giunto un invito: vuole venire a Bagdad? Si dà il convegno dei poeti arabi, non la interessa? Mi interessa; ma non posso negarlo, sono incredulo. Ma è vero, schietto, autentico Bagdad. Dico ai miei amici che vado in Abruzzo, dove sono considerato di casa, e vado a Bagdad. Quattro ore di volo; un grande, lucido, efficiente aeroporto; una Francoforte del medio Oriente; ma semivuota. Già, la guerra. E' la prima domanda che tutti si fanno; “tutti” sono gli invitati: noi italiani siamo in tre. Dov'è la guerra? Per togliere di mezzo una inevitabile curiosità, petulante ed aggressiva, occorre dire subito che i segni della guerra sono tanto rari e sporadici, che si ha l'ingenerosa sensazione di avere a che fare con una allucinazione. I segni classici, l'oscuramento, gli allarmi, l'antiaerea, i rifugi, i posti di blocco, la diffusa angoscia: di tutto ciò, nessuna traccia. 


La notte di Bagdad è illuminata come per una perenne festa: e può servire a dare una idea conclusiva questo particolare: Bassora, che noi supponiamo teatro di battaglie di casa in casa, è collegata con Bagdad con una regolare linea ferroviaria, servita da vagoni letto, sette ore di viaggio, con fermata alla stazione di Babilonia. A Bagdad la gente si sposa, il che non sembra eccezionale; ma almeno singolare è la chiassosa esibizione di questa cerimonia, con macchine che strepitano, tamburelli e rock, e abbaglianti ricevimenti nei grandi alberghi: e Bagdad è fitta di grandi alberghi. E della guerra per ora basta: c'è n'è di più a Roma a Ponte Marconi. Ma naturalmente altrove ce n'è. Ad esempio, a cento miglia da Bagdad: gli ospiti possono essere portati in visita al fronte. Strano? Bagdad è Oriente. 



Al ritorno, dopo aver spiegato ad amici irritati e insolenti, che non ero stato a Teramo, la domanda rituale è: come è Bagdad? E' bella?.
Bagdad è molte cose; ma in primo luogo è un nome. Sono certo che se avessi detto: sono andato a Tokyo, a La Paz, a Caracas, non avrei estorto più di un sorriso distratto; sono posti dove non va nessuno, o dove vanno tutti; dipende dalla bizzarria della Storia. Ma Bagdad è diverso: Bagdad è un nome mitico, un posto impossibile, arduo, secolare, favoloso; è uno dei pochi posti il cui nome eccita la fantasia e la frena insieme; si ha la coscienza che andare a Bagdad non è psicologicamente facile – c'è anche la guerra – ma non è possibile non desiderare spasmodicamente di andare a Bagdad. (...)


Accanto al suk, il mercato di Bagdad, ecco il Khan Murjan, un edificio del trecento, luogo di riposo dei carovanieri, che affluivano a quel suk, che si è insinuato tra i resti di antiche forse antichissime costruzioni. E' difficile nominare il suk senza essere in qualche modo risucchiati da questa “cosa” meravigliosa, incredibile, lievemente mostruosa. Il suk certo è una grande invenzione araba: mercato e insieme labirinto, luogo povero e fastoso, fatiscente e vivo di una vitalità infantile, ancor più che giovanile – una sorta di gioco innumerevole, minuzioso e sfrenato – il suk è un incantesimo di suoni, di parole inafferrabili, di delicata e lussuosa paccottiglia, un dedalo di vicoli che subitamente si apre sul superbo, astratto muro di una moschea.
Un luogo luccicante, finto di facile, innocente finzione, e soprattutto una folla di oggetti che dà la sensazione di essere in movimento, ed il moto misterioso, da inserto policromo, ha la distorta dignità del labirinto e dell'indugio delle muraglie fatiscenti, allusione ad un labirinto dentro il labirinto.

E' bella Bagdad? Non so se questa parola, con cui noi ci riferiamo a Venezia o a Firenze, abbia a che fare con Bagdad, o anzi con qualsiasi città a est di Suez. La grazia seducente, incantevole di Bagdad sta nella sua affollata fragilità, nella sensazione che dà di essere qualcosa di oscuramente vegetale, come se queste minute case fossero state seminate, o fossero nate in un'alba sacra dopo una notte di temporali; preziose, sofisticate cupole di funghi sovrastano una folla di efflorescenze effimere, un muschio, una minutissima erba incredibilmente viva, che non ha paura del tempo, che sa mescolare la sùbita vecchiaia e la ricorrente infanzia; qualcosa di impossibile: un eterno effimero."


(Giorgio Manganelli “L’infinita trama di Allah” 
Edizioni Quiritta 2002)







Era il 1987.
Era solo la prima delle guerre moderne.
Un’altra storia certo, ma eco di guerra mai dismesse, preveggenze sensibili, poesia da scorticare con gli occhi, con udito ed olfatto.
Un’altra Bagdad oggi impossibile, inconcepita ed inconcepibile.

Nessuna invidia, nessuna fantasia, nessuna Mille e una notte
Ma una notte sola per le nostre sensibilità affrante
di polverose torri gemelle.
E di smisurata attesa di ripristino del quotidiano.

Poi, casualmente (casualmente?), ti capita sotto mano Manganelli
E si apre un mondo sconosciuto, un mondo incredibile (ora),
un mondo che è stato sogno
ma sogno veramente,
perché anche oggi ci si sposa, si esce per la spesa,
gli alberghi del centro restaurano una normalità dipinta.
Di tenace facciata. Dilaniata da ogni telegiornale.

Ma sogno non lo è più, non lo è certo nell'immaginario collettivo di chi si sfama di televisione, di lampi remoti, di fuoco astratto.

Ma leggi Manganelli ed odi il suk, “(ri)ascolti” i profumi,
passeggi nella fiaba, ti smarrisci nel perduto.

Sarà questo il bello di leggere? Respirare un’aria rarefatta?
Appropriarsi di sensazioni altrui?
O allevarne di proprie?

E c’è anche cinema: passo fondamentale in tal senso,
che illustra dolore o sogno.



The Hurt Locker

Baghdad Twist

Green Zone

Live from Baghdad




Jarhead

I fiori di Kirkuk









Bagdad Café






mercoledì 5 febbraio 2014

TE LO DO IO IL TWEET!!!... (centoquaranta caratteri belli pregni...)



Sono fermo immobile sul raccordo, siamo paralizzati, motore acceso e la vita che scivola via, tutto tempo perso. Sembro una Ferrari ai box.



Molte persone traggono estrema forza dalle emergenze, fortificando le ali contro il vento risplendono come oasi nel deserto. Non è per me.



Certi tramonti tracimano dall'orizzonte affogandoti l'iride di sogno.
Proprio mentre credi che nessuno busserà più alla tua porta.



Gli fu addosso in un attimo. Finirono a letto senza neanche presentarsi. Dopo tre giorni, finalmente, riuscì ad alzarsi. Maledetta influenza.


Leggeva solo sport, cinema e cronaca nera. Lo trovarono morto dentro un cinema vestito da jogging. Il giorno dopo riempì tutto il giornale.



Era sempre spensierato credendo che la vita fosse tutto un film. Fino al tragico epilogo. In effetti, di cinema, non aveva mai capito molto.



Meditava delitti all'ombra della navata, non s’accorse della sagoma furtiva, armata di coltello, che penetrava la sua, personalissima, chiesa.



Centoquaranta caratteri si barricarono dentro reclamando la giusta fama. Neanche il negoziatore riuscì a dissuaderli. Toccava pubblicarli.


Si era iscritto ma non superò Sociologia, tanto meno Pedagogia, un disastro Psichiatria. Anche peggio Psicologia. Andò in Psicanalisi. 1 e 2




Nonostante le chiacchiere si era ancora in alto mare, ed il fuori onda sommerse tutte le dichiarazioni. Soprattutto quella d’Indipendenza.