Mai sentita l’espressione del titolo? Il dito nella diga fa da contraltare al prosciugare il mare con un secchiello.
Ma se il secondo celebra innocente incoscienza, il primo rivela astuzia e geniale arroganza, la
lucida volontà di metterci una pezza (tanto per non smettere di
metaforeggiare); un istinto protoingegneristico, una foga che strizza l’occhio
all’onnipotenza da banco, all’entusiasmo del neofita.
Ci crolla il mondo addosso e noi non fuggiamo,
offriamo l’alt seppur a nessuna ragion veduta, tentiamo l’intentato sperando di
cogliere di sorpresa l’inevitabile.
Eppure esiste un bimbo olandese -
eroe leggendario - che la diga la tenne davvero a bada con un dito, ormai
sinonimo di resilienza, efficienza, carattere, tenacia.
Ma esiste l’altro punto di vista, quello al di qua
della diga crepata, del muro fragile.
Quante volte tentiamo di ergerci noi a diga, invece? Ci chiudiamo dentro e facciamo in modo che un solo minuscolo dito all'esterno mantenga tutto invariato.
Temerari a chiacchiere.
Spesso basta davvero un ditino a spaventarci, a renderlo eterno quell’argine,
quella barriera che raccoglie (difende?) emozioni, voglie, passioni, curiosità.
Tutte paludate al di qua del muro, muro senza crepe apparenti, a difesa della
nostra incolumità, della torre d’avorio, del nostro piccolo io corazzato.
Una diga tutt’attorno a noi, non solo ad impedire che
fuoriesca il nostro io, ma anche che un solo, minuscolo dito, impedisca alla
luce di entrare nel nostro buio in custodia.
Troppo spesso siamo diga e siamo dito.
Curiosità che non esce,
luce che non entra.