L'unico
vero capitale umano, in fondo, è quello che sparisce ad inizio film.
Per
il resto assistiamo ad una girandola di eccessi e caricature più
adatte ad un capitale
animale (nel senso
grezzo dell'accezione).
Ho
apprezzato le tinte thriller che muovono le fila dell'intera
pellicola, la struttura ad incastri e flashbackes, i capitoli
dedicati e la tecnica dei molteplici punti di vista.
Non
certo una novità ma per la quale necessitano mano e mestiere, e
sensibilità, come nella scena volutamente e disperatamente muta di
Serena che irrompe a casa di Luca nel finale.
Non
ho affatto apprezzato, invece, il massiccio calco di mano su
personaggi tutti già fastidiosamente fastidiosi, a cominciare da
quella parodia d'omino di Bentivoglio e la sua perenne gomma
americana da ciancicare a bocca aperta e la dolente Bruni Tedeschi,
che vedo calzante nella parte di moglie accessoria del cinico
maghetto della finanza creativa brianzolo (un Gifuni funzionale), ma
stolidamente straripante nei suoi eccessi convulsi (mentre urla alla
rotatoria o piange al parcheggio), nei suoi filini di voce (alla
riunione con quel circo barnum di personaggini ridicoli - davvero
pensate sia in mano a questi alieni il nostro teatro? -) o nelle sue
snervate velleità di donna ancora desiderabile (con un Lo Cascio al
minimo sindacale).
È
come se Virzì, per la prima volta alle prese con una torta (dolce
per antonomasia), pensasse bene: ”ma si, mo' ce lo metto 'stò
mezzo chilo di zucchero...”, lasciando vagare anche tutti gli altri sull'onda dello stereotipo sottolineato a pennarello (scarsa fiducia
nella capacità di discernere dello spettatore? Paura di non delineare a sufficienza?)
Stranamente
immune da questo allegro evidenziare rimane la Golino (alla quale
sono notoriamente refrattario), moglie di Bentivoglio, che per
l'occasione veste i panni del basso profilo rimanendosene serenamente
ai margini, da buona psicologa che non comprende una mazza di tutto
il bailamme che gli si agita attorno.
I
ragazzi sono di una pochezza devastante, e anche di una volubilità
che destabilizza. Serena (bella prova questa di Matilde Gioli) rimane
incastrata, e non si sa bene per quali dinamiche se non quelle utili
al plot, prima dal ragazzotto “bene” tutto macchine e capelli, col
quale ci sfugge il genere di afflato condiviso, poi da un presunto
disturbato che la conquista con un disegnino.
Potrebbe
non sembrare, ma il thriller sullo sfondo, teoricamente propedeutico
all'analisi di rapporti umani, condiziona parecchie scelte rendendo,
di fatto, meno plausibile (e plasmabile) il presunto “capitale
umano” a disposizione.
La
quantificazione in termini assicurativi attribuiti ad una vita persa,
sui titoli di coda, fa riferimento alle aspettative ed anche
alle prospettive di vita economica, di un singolo individuo. E da
questo ulteriore “punto di vista” (in omaggio alla scelta
registica) vincere la scommessa sulla fine di questo mondo è
solo la coerente linea di comportamento di chi lo faceva anche prima
e continuerà a farlo dopo.
Troppa
carne al fuoco? O forse solo troppo zucchero nella torta?
Intanto
prendiamo atto della scelta coraggiosa di Virzì in un panorama
cinematografico dove tutti restano aggrappati al proprio orticello.
E
lo aspettiamo per una conferma meno didascalica.