Ecco un libro del quale
sembra non esistere una recensione negativa. L’ho letto anche abbastanza
velocemente, mi ha preso molto all’inizio. Forse perché vi si narra la storia
di una custode di cimiteri.
Un
posto dove tanti si trovano a disagio, un posto dove a me piace passeggiare
invece, spulciare le lapidi altrui, sbirciare gli epitaffi, osservare le
architetture e gli ornamenti, le date dei decessi e le foto scelte.. lo facevo
anche prima della morte di mamma, anche se meno spesso, andando a trovare
suoceri, amici, nonni, zii.. quindi l’atmosfera di luogo appartato, di isolamento riflessivo ed intimo, descritta nel libro, l’ho trovata subito nelle mie corde.
Ed anche Violette, la
custode (anche se da più parti accostata - impropriamente - alla Renée de “L’eleganza del riccio”), mi ha comunicato quasi un senso di complicità e di affinità elettiva, con la sua quiete
interiore, la maturità ed un livello di esistenza superiore, mi è parsa permeata in acutezza e sensibilità da quel luogo di “pace eterna” . Ma proprio mentre mi stavo accomodando tra le pagine placide di aromi e tempi dilatati, si
parte per la tangente. Violette ha un passato, e ci posso stare, ma soprattutto
diventa arbitro e crocevia di una moltitudine di intrecci che svicolano tutti
per il piccolo cimitero di provincia. Dall’amore folle a quello molestissimo, dal
thriller elementare fino alla sua soluzione infantile. Dagli intrecci di vite
diverse e molteplici, dai contorcimenti familiari fin troppo ambigui, improbabili,
irreali. Dai ribaltoni alle confessioni, dalle preghiere ai distacchi e alle
rinunce. Incontri e rincontri, tutto e
tutti intruppati, a mirabolante incastro,
nel sottosuolo del piccolo cimitero, con i flashbacks a esumarsi l'uno con l'altro.
E’
come nei piccoli paesi, appena fuori dell’abitato, dove mi piace aprire vecchi
cancelli cigolanti, in minuscoli poderi, a volte in appendice ad antiche chiese
appesantite dalle stagioni; a volte su disordinati cimiteri ricolmi di passato,
di storie e racconti: non c’è morte ma solo palpabile quiete, tombe e lapidi
sembrano composte sciattamente, lasciando minimi e insensati spazi, ma rimane l’idea
di un composto omogeneo, affiatato, necessario.. una tavolata di vecchie
conoscenze, e noi a passeggiare chiedendo permesso e origliando leggende..
Forse da qui quel
“cambiare l’acqua ai fiori”, perché quel sottoterra brulica di sete d’amore,
vendetta e incanto, odio e fascino, oblio e rammarico. Ma andrebbero impiantati
semafori per quei vialetti, non lucine (quei semafori addirittura esaltati e protagonisti, attraverso
una pagina di melassoso cinema a nome “I Ponti di Madison County”), e chi passeggia
sopra non è che la punta dell’iceberg di sconvolgimenti che partono da lontano
ed evidentemente non trovano pace ma, anzi, la arano quella terra fino a
sviscerarne ogni più recondita radice. E lì comprendiamo che la Perrin (nella vita coniugata Claude Lelouch, del quale non lesina nel libro scene e citazioni) non
vuole più solo stupire: vuole strafare, vuole ammucchiarne di legna sul fuoco, inondarli
d’acqua quei fiori; adultere che danno del Lei, personaggi e personaggini che si incrociano a
più riprese, e poi esequie su esequie, orazioni funebri da show, numero dei
presenti e numero degli assenti, collezione di vedove inconsolabili, matrimoni
che ce ne fosse uno azzeccato, rimorsi e rimpianti, ceneri al vento e inumati
che, in realtà, non ci sono mai stati. Un continuo scoprire carte (o tombe): si parte per
sottrazione e i piani temporali disseppelliscono (per rimanere in tema) altri
piani temporali. Un cimitero che è Arrivo ma allegoricamente Partenza, in teoria indizio di stabilità definitiva, ma in realtà punto focale dove il tutto si aggira vorticosamente attorno,
tutto passa per la casa della custode, segreti e consigli, sensazioni e
sentimenti, passato e futuro, consolazioni e rivelazioni; quella casa racchiude un turbinio, e il terreno
attorno sembra dissodare costantemente, anziché custodire, urlare anziché silenziare.
Ricordo
ancora quando, per vedere se le lampade crepuscolari messe nel terreno vicino
la tomba di famiglia di mamma, dovetti aspettare nel cimitero, quasi fino
all’orario di chiusura, che ci fosse abbastanza oscurità per permettere ai led di
accendersi. Ero praticamente da solo a
passeggiare sereno tra vialetti e lapidi in un magnifico silenzio,
ignaro dello spettacolo che di là a pochi istanti mi sarebbe apparso:
nell’oscurità incipiente una miriade incredibile di lucine stavano creando
autentico spettacolo. Una città fibrillante di luce, come di festa, ma privata,
una festa solo per me, e per la mia mamma.
“Signor Seul, se sulle
porte degli armadi ci sono le chiavi, è perché nessuno li apra” questo fa pronunciare Valérie Perrin a Violette. In realtà Cambiare l’acqua ai fiori si sarebbe
potuto chiamare: “Svuotate gli armadi: se non ci sono le chiavi, chiedete a
Violette”. Mi rendo conto però che sarebbe stato troppo lungo, ed in qualche
modo avrebbe potuto spoilerare gli innumerevoli epiloghi, con svariati incipit ad orologeria, tenuti semi occultati per due/trecento pagine.. giusto per
farci ambientare ad atmosfere solo apparentemente lugubri. Un romanzo a scatole
cinesi a forma di piccole bare, se mi è permesso il gioco di parole. Un narrare
che chiede troppo, a mio avviso, nella nobile intenzione di donare tanto, sia
chiaro, ma che rischia di fracidare anche il fiore più resistente, a volergli
cambiare troppo spesso l'acqua.