..ma in realtà tutti sulla presunta presunzione del poter risorgere.
IL PRIMO GIORNO DELLA MIA VITA
“Abbiate nostalgia della felicità solo così vi
verrà voglia di cercarla”
Quante sono davvero
le persone che stanno bene con se stesse e col mondo che le circonda?
Sembra essere questo l’assunto da cui parte la storia di Paolo Genovese, da lui
stesso scritta prima come romanzo e poi trasposta al cinema.
Quattro personaggi
che decidono di farla finita per cause ed eventi diversi, cui vengono offerti
sette giorni di vita supplementari, da spettatori, per vedere come il mondo
reagisce alla loro dipartita, e anche qualche squarcio di futuro nel quale
invece rimangono in vita, reagendo alle
loro problematiche.
Ovvio che una facile
impronta di filosofia new age abbia infastidito parecchi, ma il film è pervaso
comunque di sensibilità autentica, di punti di vista carichi, di risposte reali
(aprendo una parentesi, e alla luce degli ultimi tragici ed assurdi eventi,
anche il paradossale episodio del ragazzino youtuber acquisisce tutta un’altra
delineatura..).
E anche l’epilogo, affatto
scontato quando ti imbarchi in avventure fantastiche ed irreali, diviene
carezzevolmente familiare e comprensibile, nonostante l’aurea drammatica.
IL COLIBRI'
In questo Premio Strega di Veronesi adattato dalla Archibugi,
campeggia un Pierfrancesco Favino insolitamente disinnescato. E’ il centro
perenne di questi cinquant’anni di storia familiare freneticamente frullati
assieme, dove si barcamena in una serie di passioni, disgrazie, schizofrenie e
personaggi borderline da far perdere il senno a chiunque.
Il nostro Colibrì invece - definito inizialmente così dalla madre per la
sua gracilità - sembra destinare tantissimo sforzo affinché,
gattopardianamente, nulla cambi, così lo inquadrerà infatti la sua
eterna platonica amante.
A ben guardare invece, sembra di assistere ad un novello Forrest Gump, dove
comunque Favino la vita la sconquassa per bene: bruttarello riesce a far
invaghire la bonazza vicina di casa che tresca pure col fratello di lui, molto
più carino; va a pescarsi la moglie in base ad un’illuminazione del destino
(chi riuscirebbe di noi comuni mortali?), iscrive la figlia a scherma perché
questa immagina un filo dietro di lei, e quindi cosa migliore di attaccarcelo
davvero? Molla serenamente 840 mila euro vinti a poker, lascia la moglie in clinica
psichiatrica, tirerà su la nipotina che saprà nera solo al momento del parto..e
via coi quadretti sbalestrati di vita sottosopra.
Già dagli anni 70 nella loro agiatissima villa al mare scopriamo inquietudini
sentimentali e sbalzi d’umore preoccupanti.. pensa se erano poveracci di
periferia, poi dice che anche i ricchi piangono.. tutto affastellato di rogne
varie fino alla spettacolare eutanasia in giardino, dove vengono invitati tutti
tranne l’amico Duccio (Totò menagramo dei poveri, ce l’avrei visto bene nella
scena clou, con la siringa fatale che s’inceppava..), da brividi solo per
l’assurdità.
Nel mezzo da segnalare un Moretti psicanalista da strapazzo sconvolto perché
una paziente vuole far fuori il marito (aveva cominciato il giorno prima ad
esercitare?!), perfettamente propedeutico però, immagino, per il suo ultimo
film ora in sala.
QUANDO
L’operazione nostalgia di Veltroni si fa prendere un
po’ la mano “quando”, descrivendo Giovanni (un Marcoré in vena di gigioneggiare),
in coma dal funerale di Berlinguer e risvegliatosi 31 anni dopo, tiene a
sottolineare soprattutto quello che non c’è più rispetto a quello che c’è ora,
e quindi fidanzate che non potevano certo aspettare un miracolo, una vita che
scorre nonostante tutto, trent’anni fuggiti via insieme al partito sfumato
anch’esso, le belle ciao ancora da cantare in coro.
Un rammarico più ideologico che fisico quello di Giovanni /Veltroni.
Gli nascondono l’ex fidanzata, ma lui sembra neanche chiederselo mai come mai
non sia più al suo capezzale, mentre gli fanno però notare immigrati, torri,
muri crollati, mamme rimaste impigliate nel ricordo.
Ecco, come per la mamma assistiamo a questa
cristallizzazione elementare, un’operazione nostalgia troppo permeata di
buonumore e battutine, lo spazio per l’analisi del trauma si prende tempi
minimi, quasi con la paura di infastidire lo spettatore. Poi ci si tuffa leggeri nella vita odierna che manda in fibrillazione
chiunque, figurati uno che viene da trent’anni prima.
Dopo un coma simile dovresti risvegliarti quasi
cadavere ma il nostro c’ha subito la battuta pronta e il trauma 18/51 anni sembra
sempre sfiorarlo appena. C’è rimasta pura una super suora accanto a lui, una bellissima
Solarino che esalta fin troppo dubbi e tormenti, e si esibirà pure lui, come
terapeuta, per un ragazzo ricoverato affetto da mutismo selettivo.
Probabilmente ha nuociuto il passaggio libro/film. Lo
stacco pagina/ immagine ha pagato pegno specie “quando” decidi di sottolineare
troppo quello che lasci, bignamizzando freneticamente quello che trovi, in certi frangenti
sembra un’operazione al contrario, che probabilmente piacerebbe al Veltroni di
oggi: risvegliarsi di botto trent’anni fa e tentare di fare qualcosa di meglio.
WAR LA GUERRA DESIDERATA
Parte bene e assembla tutta una tipologia di
isterismi sopra le righe, anche se tanti sembrano episodi slegati, a far capire
quanto poco basti all’uomo per far emergere i lati peggiori, quelli che possono
portare al disastro senza neanche accorgersene.
Da questo punto di vista War evolve bene, mischiando assurdo e convenzionale,
accostando soggetti lontani e mossi da esigenze diversissime, eppure entrambi
disagiati e sconnessi col mondo terribile che li sta coinvolgendo. Un clima
irreale permea Roma, cogliendo atmosfere lockdownesche e climi da stadio;
Edoardo Leo da solo garantisce equilibrio, risata, intimità come fosse calato
dall’alto in questo schizzatissimo circo prebellico, muovendosi in realtà che
non gli appartengono per ritrovarsi in una vita che mai avrebbe immaginato (da
esperto di lingue romanze ad allevatore di vongole). Purtroppo ci si perde in
lungaggini di atmosfera pseudo sognante, specie per dar risalto a Miriam Leone,
grazioso orpello ma ben poco definita.
Stefano Fresi appare praticamente in un cameo di incredibile tenerezza, e Giuseppe
Battiston offre vita all’irrequieta frangia di schizofrenia che ognuno di noi
magari coltiva misuratamente ma tiene serenamente a bada fino a che taluni
eventi finiscono per sabotare ogni autocontrollo.
Insomma operazione originale e curiosa War, che non facciamo neanche più fatica
ad ipotizzare dopo gli ultimi eventi bellici che mai avremmo supposto oltre i
confini di una sala cinematografica o dal comodo streaming di Netflix.