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giovedì 3 aprile 2025

GUSTO E DISGUSTO: IL PARADOSSO PSICOLOGICO

 


Gratitudine e ingratitudine, piacere e dispiacere, fiducia o sfiducia, sono tutte emozioni, contrapposte, e riconosciute.

Tra le tante ne esistono di primarie: gioia, paura, tristezza, rabbia e disgusto;
cinque emozioni così identificate da autorevoli fonti, alle quali, di recente, si è aggiunta l’ansia, anche lei con  lo status di primaria.
 
Un pacchetto deprimente solo a leggerlo.

Non si direbbe un’esistenza serena per chi si percepisca conforme a questo standard di priorità e riconosca di vivere quotidianamente secondo questa scaletta, anzi, appare una battaglia emotiva persa sin dall’inizio.
 
Personalmente questa “classifica” le vedrei ben disegnate come profilo di un abitante di Gaza, con unica gioia quando si renda conto che l’ultima bomba esplosa a due passi da lui, lo ha lasciato illeso.
Per il resto un bagno costante di paura, tristezza, rabbia e disgusto; e ansia, dimenticavo.

Tornando invece a sensazioni, emozioni che si contrappongono, come quelle citate ad inizio post, nulla da dire.. se non quando si parla di gusto, relegato “soltanto” al ruolo di uno tra i cinque sensi comunemente conosciuti.
Infatti la maggior parte delle persone abbinano subito a questa parola solo sensazioni alimentari, legate a percezioni di piatti e sapori.

Ma il “senso” di gusto non si esaurisce certo attorno alla bontà di una carbonara, può rappresentare infinite sfumature, una metafora di piacevolezze estetiche.

È possibile gustare un gradevole spettacolo teatrale come una splendida giornata di sole o un’amabile passeggiata tra boschi e sentieri; al contrario, la sua accezione negativa, il disgusto, è uno dei piatti forti (per rimanere in tema gastronomico) delle principali emozioni attribuite al genere umano.

Io la trovo una forma scorretta di inventario emozionale.

Sembra che il fine ultimo di certo universo psicologico sponsorizzi e favorisca un’esistenza costantemente in allerta, utile a forgiare armature, scavare fossati, coltivare diffidenza e sospetto per una vita che riserverebbe, in gran parte, solo angoscia.

Nessuna fiducia quindi, solo scetticismo e pessimismo, cosmico possibilmente, una visione leopardiana senza speranza.

Voi credevate che la vita fosse bella per principio, ricca soprattutto di amicizia, serenità, sorpresa, quiete, simpatia, spensieratezza, ispirazione, stima, amore, entusiasmo, meraviglia?

No.
State sognando la vita di un altro.
C’è da soffrire innanzitutto, avere timore, secernere astio, immalinconire, abbattersi e deprimersi.

E se queste, alla fine, sono davvero le basi emotive rivelate dagli specialisti del ramo.. perché non farsi coadiuvare da un’analista esperto?
Da qualcuno che sappia mettervi in guardia, istradarvi sulla vera essenza della vita, l’ipocrisia che la contraddistingue e la malvagità che la anima?
Contattate uno psicologo, forse siete ancora in tempo.
Prezzi modici. Massima serietà.
Tempo di cura spesso indeterminato.


lunedì 18 novembre 2024

‘NCÒPPA A PARTHENOPE

La carrozza iniziale ideale continuum della mozzarella di E’ stata la mano di Dio. Una combinazione gastronomica part(h)enopea  appetitosa, vagamente indigesta però, se tradotta a forza in cinema.

E stavolta ci ficchiamo di tutto nella rutilante napoletanità rappresentata, mancano il mercato del pesce e le sfogliatelle ma in un ipotetico terzo atto a chiudere la trilogia, perché no?
Nei primi dieci minuti lungo videoclip di spot per profumi, ma senza il profumo; poi nasce Parthenope, splendida sirena pupazzetta con due espressioni alla Clint Eastwood, con sigaretta e senza.

Sorrentino la userà come fil rouge per legare quadretti di partenopeismo convenzionale visto e stravisto: famiglia decaduta, camorra gomorriana (con accoppiamento/iniziazione  di clan avversi), religiosità fanatica e blasfema, università bigotta con Silvio Orlando perennemente scocciato e tristanzuolo, disabili alieni, l’ambito scudetto, il temuto colera, incesti e aborti, attriciacce fuori tempo massimo, e poi perenni richiami felliniani tra il grottesco e il bizzarro, con le immancabili ciccione e gli spilungoni,  e c’è spazio pure per l’alcolista John Cheever interpretato da Gary Oldman, alla fine il meno fuori luogo nonostante la sovraesposizione di bottiglie e bicchieri vuoti.
Incessante l’interrogativo facebookiano rivolto da tutti alla nostra donna di paglia: a cosa stai pensando? Ma chissà se, pensa; la nostra bellezza di turno, desiderata da tutti.. “furbacchiona”..

La Ranieri “sofialorenizzata” intavola una catilinaria che si pennella perfettamente addosso al cinema sorrentiniano. Chissà, magari un’auto fustigazione.
C’è in atto, nel filmarsi addosso del regista, una frammentazione della trama compiaciuta del nulla narrato: l’estetica innanzitutto, e a corollario le elementari e tediose citazioncine aforistiche alla Gambardella, richiamando anche una grande bellezza perduta, come quella della Sandrelli imbruttita ancor più, come non bastasse al naturale (m’è sovvenuto pure il Cage di Longlegs).
Parthenope cresce, senza scorgere l’amore ma sfilando di continuo, sforna decolté ed esami esposti a pappagallo, ma trova anche il tempo di “ripassarsi” mezza Napoli (non osiamo immaginare poi nei quarant’anni a Trento.. magari materiale per successive pellicole,  Song ‘e Napule  suonerebbe bene..).
Circo appagato dall’esagerazione fino all’iperbolico “A dio non piace il mare”, citato enfaticamente nei titoli di coda a stupire di nuovo; un mare che non piacerebbe partecipando anche lui ai dolori esistenziali, donando vita e togliendola anche, un po’ come a Sorrentino,  cui probabilmente sta stretto il cinema e forse anche Napoli, ma si sforza di servircene una visione tutta sua..

Eppure resto fan estasiato di Young e New Pope.. e spero ancora nel rientro in carreggiata del nostro, con abbandono definitivo degli stucchevoli  ralenty e dei Cocciante di sottofondo..

sabato 19 ottobre 2024

MEGALOPOLIS

 

Non è solo la cifra immensa sbandierata ai quattro venti - e le difficoltà affrontate da Coppola per questa sua creatura, rimettendoci anche di tasca propria - a farmi attendere impatto e potenze visive che invece fanno estrema fatica ad emergere;
ma anche le soluzioni digitali elementari e le architetture urbane futuristiche alla Star Trek, con le automobiline  a bolla e i tapis roulant, una visione basica versione Legoland e che riesce a rivalutare anche certe scenografie del lanthimosiano Povere Creature.

Non è solo la New Rome modellata sull’onda dall’attuale bolla americana scimmiottante la decadenza della Roma di fine Impero, con pretoriani corrotti e viziosi, i loro nomi a richiamarne l’epoca di panem et circenses, e la plebe costantemente a sbirciare da dietro una rete metallica;
ma anche la trama déjà vu, orpello alla grandezza posticcia sullo sfondo dell'allegoria tra opulenza e bassifondi da aizzare al proprio servizio, come tenterà il garrulo Commodo/Trump/LeBoeuf.

Il palazzo che viene fatto crollare all’inizio è una ridicola casa popolare che avrebbe sfigurato nella più degradata delle periferie romane, lontanissima dalla città che una sonda - guarda caso targata CCCP - dovrebbe radere al suolo per permettere a Megalopolis di disegnarsi utopica e rivoluzionaria, tra il fantasy e la new age stile Roger Dean, che da una vita celebra il futuro attraverso le mirabolanti copertine degli Yes.

Non è solo l’America messa su da Coppola che strizza l’occhio a città crepuscolari viste e riviste, citando tutto il citabile, da Fellini a Scorsese, da Nolan a Cuaron, da Spielberg a Scott;
ma anche il narrare una favoletta dalle limitatissime pretese (forse buona parte del budget era per convincere Dustin Hoffman in quel suo insulso cameo), senza poi farti  testare nessuna inedita concezione, o un approccio davvero innovativo; si ricalcano richiami spremuti, dal pruriginoso al kitsch, e poi il consueto campionario di gelosie, canzoncine, invidie, scaramucce e cotillons,  passando dall’ormai obbligatorio lato LGBT.

Non è solo l’abusato tormentone del bel tormentato, architetto geniale che ha facoltà di fermare il Tempo creando (e ricreando) materia con la plastilina magica Megalon, fino ad innamorarsi della figlia del sindaco in bilico tra amore paterno e ardori passionali;
ma anche tutto il calderone dove gli stessi protagonisti sembrano finire spaesati recitando come automi e macchiette (Jon Voight tanto per dire, zio magnate di Catilina e futuro sovvenzionatore dei suoi rampanti ghirigori edilizi) ingoiati dalle sottotrame spesso in maldestro incastro.

Sarò un nostalgico, come Cicero, il sindaco conservatore che, almeno inizialmente, osteggia Catilina, ma rimango legato alla vera, autentica, e ancora “rivoluzionaria rivoluzione” coppoliana,  quella di Apocalypse Now, altro spessore: visivo, narrativo, emotivo.

Non è solo questa New Rome confusionaria, con l’utopia  giusto accennata tra alcool, droghe e intarsi onirici;
ma anche la troppa carne al fuoco senza focalizzare ne’ storia e meno ancora i caratteri di personaggi a rasentare il fumetto.
Del resto anche il superpotere di Adam Driver ne evidenzia questa essenza visionaria e cartoonistica, ritagliandosi prologo ed epilogo ad effetto, fino ai tarallucci e vino del finale dove, tra le altre ovvietà, non solo Speranza, Pace, Giustizia e Prosperità ma anche, e per l’ennesima volta, Shakespeare nel suo massimo evergreen, sempre utile in tutte le epoche ed evidentemente in tutti i futuri auspicabili..

Menzionerei comunque tra i comprimari, oltre Shia LeBeouf in veste, diciamo pure, eccentrica, la nostra immarcescibile Elsa Fornero, per l’occasione moglie del sindaco cattivo, senza tuttavia apparenti crediti nei titoli di coda.
La fotografia tenta con qualche garbo di rendere tutto impalpabile mai come la colonna sonora, però, impalpabile davvero.

Mi sa che stavolta Coppola ha dilapidato davvero, in una botta sola, tutti i sospesi raccattati dal garzone di bottega per conto del droghiere.. (cit. all’apparenza generica, ma neanche troppo).

Francis Ford Coppola. Ex droghiere. 



venerdì 30 agosto 2024

PERCHÉ L’HORROR?




Ogni tanto piace porre domande, anche se in campi lontanissimi dal proprio sentire e, addirittura, azzardare risposte.

Ma nel caso specifico avrò bisogno della vostra collaborazione, di voi fans di horror e affini, potrei magari farmi un’idea.
Perché piacciono gli horror, spesso accoppiati allo splatter più nauseante?
Come mai stanno soppiantando categorie consolidate  come la commedia, la fantascienza, il thriller, l’action?

A sentirli, diversi utenti, ti raccontano che trattasi pur sempre di fiction e che il brivido della paura è roba ancestrale e attrae un po’ tutti fin da piccoli.
Chi non ha mai provato il fascino delle montagne russe
col cuore in gola alla prima vertiginosa discesa?

Questo sì, lo ammetto, ma non ricordo di aver cercato di bearmi ancor di più,  tentando di scorgere, tra i binari, cadaveri squartati di fresco.
Per certi analisti subentrerebbe anche un fattore somatizzante, un mettersi alla prova se, per caso, un giorno, dovessimo realmente affrontare pericoli immani,
mostruosità, robe folli.

Probabilmente hanno ragione entrambi, anche se tra un horror splatter e un thriller come si deve, continuerò sempre a preferire il brivido e l’oculatezza del secondo.

Mia moglie trova orrendo quando, in preda agli spasmi di mal di pancia, mi infilo due dita in gola per vomitare e procurarmi qualche istante di sollievo. Ecco il punto, stessa manovra: orrore per qualcuno, piacevole conforto per altri.
Potremmo finirla qui.

E il paragone col sussulto da montagne russe lo considero, poi, davvero gratuito. Spaventarsi a morte con contorno di sangue e scannamenti rientrerà forse nell’amore del palpito, ma ci scorgo una consequenziale deriva al limite del manipolatorio, fino al poter godere di una sessione di sevizie e martirio gratuito.

Comprendo però che per tracciare linee così definite abbiamo bisogno di analizzare più a fondo. La psicologia in questo senso offre un magari inconsapevole aiuto.

Del resto sono proprio quelle definite dagli esperti del settore, come “emozioni principali” ad alterare, da sole, le esatte percezioni: paura, disgusto, tristezza, rabbia rientrano nel bagaglio principale col quale ognuno di noi avrebbe a che fare quotidianamente. Certo c’è anche la gioia a fare da contraltare.
Quattro contro uno. Farebbe fatica pure John Wick.
Mi sembra palese l’apparente disequilibrio di personalità che ne viene fuori.



Per dirne solo una, che il disgusto sia più importante, più necessario, più abituale soprattutto, del gusto, la dice lunga sul come e a cosa venga scientemente indirizzato il nostro subconscio.

Sarebbero più le cose che fanno schifo ad attirarci, e in effetti ecco la risposta al pubblico di massa di certo cinema irricevibile (da noi, ovviamente..)

Ma poi sono gli stessi che andrebbero alle Maldive, ai party in piscina, che sognano un giro in Ferrari, o una serata con Margot Robbie?
Perché certa bellezza terrebbe ancora banco? Una contraddizione..
Si arriverà al punto che anche al ristorante si ordineranno porcherie per soddisfare la fame e la necessità di disgusto.. col cinema siamo già avanti.. in effetti si parla dell’ “orribile che emoziona come le cose belle” (https://ilbuioinsala.blogspot.com/2024/07/recensione-dostoevskij-al-cinema-2024.html), e già in questo intravedo la stortura dell’ossimoro indecifrabile.

Sul n 28 di FilmTv, diretto (e dedicato) dai Fratelli D’Innocenzo, Giulio Sangiorgio esalta le “forme disturbanti, la dismisura e lo sfregio del buon gusto”  “una forma scomoda , persino sconveniente”  “se siete respinti, restate”, parlando della loro ultima opera “Dostoevskij”.

Non escludo a priori l’horror dalle mie scelte, resto un fan de L’armata delle tenebre o L’alba dei morti dementi, o anche altre pellicole che cercano di svicolare dal cliché “te devo fa morì sulla poltrona”, tipo Parasite o Get Out, veri cult in un ambito di genere non ancora estremizzato e ridotto a torture porn.

Purtroppo stiamo degenerando, ma forse è proprio la doppia finalità che propone certo “cinema”, finiremo per sostituire del tutto la nausea all’applauso, la deturpazione alla bellezza, la repulsione al fascino, come nuova fase di apprezzamento di una pellicola.
Forse questo il fine ultimo di questo processo evolutivo (?!)

Diciamo che rinuncio ad interpretare questo ossequio dell’orrido.
Ma se penso che tanti ormai trovano più (dis)gustoso  rovistare (almeno cinematograficamente) tra frattaglie umane anziché assaporare una carbonara o emozionarsi secondo antichissimi e superati canoni, depongo serenamente ogni velleità di venirne a capo.

Mi direte infine: “Ma cosa te ne frega a te di cosa guardiamo noi?”
E non fa un piega. Curiosità risponderei, che poi è un istinto base comune.
Certo più del sangue che tracima.                                                                                



 

 

 

 






mercoledì 6 marzo 2024

POVERE CREATURE!

 

L'oca è quella a destra

Come ne La Favorita - decisamente di altro livello -, gli uomini di Lanthimos sono  sempre creature eccentriche e bislacche, e anche stavolta, non vanifica la regola il team centrale formato da: scienziato e chirurgo svalvolato, studente ingenuo,  mentore abietto e, dulcis in fundo, marito vannuccizzato.

In mezzo Emma Stone che decisamente giganteggia, sparando eccessi all’impazzata,  da pupa capricciosa e robotica fino alla sua definitiva, seppur davvero elementare, emancipazione, chiave del film, dove opera a cervello aperto e sorseggia drink conscia della sua autonomia e del suo raggiunto potere.

Nel mezzo scenografie mozzafiato, ricami surrealisti e colonna sonora di grande impatto, ma l’evoluzione di Bella resta legata a stereotipi di libera e confusa sessualità meccanica (“non dovremmo scegliere noi i clienti?”)  mentre non avvertiamo nessun afflato sentimentale se non un sussulto alla notizia della malattia del padre/creatore.
Bella si dimena (letteralmente) tra le sue (s)coperte, si commuove addirittura per le ingiustizie sociali, sciorina aulicamente  a pappagallo nuovi vocaboli, balla gli ormai immancabili balletti marca Yorghos, si affeziona forse, ma non si innamora mai, rimane “libera” e si arricchisce di soldi e concetti “socialisti” istillati dalla “collega” nera “politically correct”, come nero anche il tipo in nave vestito da bignamino filosofico.

Bella può abbandonare anche un altare per continuare a scoprire, ma guai a volerla rinchiudere. Una complessità sbandierata che tenderebbe a far fuori preconcetti e falsi moralismi sguazzando nel voler sorprendere a tutti i costi, e mentre tecnicamente riesce, rimane impaludata nel messaggio rudimentale del corpo come passepartout.

Alla fine un po’ tutte povere creature ‘sti personaggi, lo scienziato manomesso da piccolo che giustamente si rifà col resto del mondo, il sordido avvocatucolo che si scandalizza, il fidanzatino che abbozza sempre, il marito già capra prima del trapianto, Emma stessa, che magari nei panni della maitresse ipertatuata (e non di strafiga), avrebbe dovuto computare da capo le sue stime di sopravvivenza.

E poi c’è Felicity!! La nuova ragazzetta automa sperimentale (“avete creato un mostro!”).. quando la portiamo a Parigi?  ;)

 


giovedì 18 gennaio 2024

PERFECT DAYS

La leggenda vuole che anche a Matteo Garrone venne richiesta, inizialmente, un sorta di indagine/documentario sui bagni pubblici dei sobborghi vesuviani.

Il docufilm evolse poi come Gomorra.

A Wenders fu commissionata una cosa simile per propagandare i nuovi bagni pubblici di Tokyo, installazioni avveniristiche ad altissimo tasso di design.
Ne è venuto fuori Perfect days.
E qui potremmo già parlarne in maniera pacatamente differente. 

Hirayama, il protagonista, è appunto l’addetto alle pulizie di queste Tokyo Toilet,  giapponese di mezza età mite e taciturno, metodico e generoso, che legge e ascolta classici, fotografa in analogico e si bea di un’apparente routine che gli concede però sempre punti di vista differenti: luci tra le ombre, atteggiamenti dei diversi passanti che osserva, piacevolezza nel giocare a tris con uno sconosciuto, partite che non concedono vittoria, ma solo la curiosità della costanza, l’osservare la varia umanità che gli si muove attorno: dalla depressa catatonica che gli pranza a fianco sulla panchina dei giardinetti, al senza tetto che pacioso contempla il mondo, al suo compagno di lavoro che nonostante l’aurea di stupidità si dimostrerà capace di una sensibilità particolare. Esemplare quando tira un fuori un bimbo rimasto chiuso e piangente in bagno seduto sulla tazza con tutti i pantaloncini.. strani ‘sti giappo!

Sapremo comunque poco di Hirayama, parlerà a sprazzi con la nipote insofferente e in temporanea fuga da una vita agiata ma vuota, e comprenderemo che anche lui li ha conosciuti dei mondi diversi, probabilmente crescendoci, e in cerca di fuga ha potuto scegliere (dettaglio da non sottovalutare), e comunque scansandosi la pulizia dei cessi degli autogrill di Modena sud o di Caserta Nord.
Penso allora ai tantissimi che non possono scegliere, di mondi ne incontrano uno solo, e di fughe ne sono concesse davvero poche.

Hirayama vive adesso, perché un’altra volta è un’altra volta. O magari lo è stata. Ecco uno dei punti di riflessioni più alti della pellicola, assieme a quella dello specchietto che indaga l’interno tazza.  
Ora sta bene così, lo vedremo raramente contrariato, anche quando finisce la benzina, e non si capirà bene come risolve con pochi soldi e forse una delle sue preziose musicassette da sacrificare.

O verso la fine, quando non degnerà di uno sguardo le foto appena ritirate (forse le aveva chieste a colori..chissà..) sdraiandosi pensieroso..

Ma sono davvero minimi i disappunti cui far fronte quando la vita ti si dipana così regolare e senza scosse. Certo noi a Roma quando usciamo di casa guardiamo prima se l’auto c’è ancora, e solo poi alziamo gli occhi al cielo riconoscenti. Ma sono dinamiche differenti, lo ammetto.

Ma gliene invidio di situazioni, ad Hirayama. La macchinetta distributrice di caffè sotto casa, ad esempio, e quel traffico ordinato, dove in un breve frame si intravede una doppia fila di auto a passo d’uomo ed uno scooter che - invece di svicolare - è  anche lui ordinatamente fermo tra un’auto e l’altra.
Forse il punto più zen di tutta la pellicola, non ci avete fatto caso vero?
Stavate decifrando i sogni in bianco e nero.. o cercando di capire se due ombre sovrapposte siano più scure di una sola.
Io invece avrei voluto sapere come ha fatto l’ex marito della proprietaria del ristorantino a trovare Hirayama così a caso, in riva al fiume.. ma non adesso, ci penserò un’altra volta. 

Un film di apparenze, vero, e ricco di segnali subliminali da saper cogliere. Che magari a tanti sfuggono nonostante gli "oohh" di approvazione, visto che la mascherina al cinema continua ad essere una rarità, e non un segno di civile e rispettosa convivenza, e che le toilette delle sale seguitano a demotivare anche il più volenteroso degli addetti alle pulizie.
Tanti avevano detto di scorrere i titoli di coda fino alla fine per un ulteriore messaggio zen, ho approfittato per vedere se Viakal apparisse tra gli sponsor ufficiali, ma invece no, c’era però lo Skytree, la torre per telecomunicazioni inquadrata da Wenders circa 1650 volte, e che immagino disegnata da uno degli architetti delle latrine, magari quella con le pareti a vetri che si oscurano quando ti chiudi dentro. Inquietante.. se di botto diventa trasparente?



sabato 7 ottobre 2023

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE - L'OSCAR AL MULTIVERSACCIO

 


Un piccolo film. Minuscolo direi: come noi persi nell’universo, quello vero, insomma; ma per altri “versi” lo scorgo ancora più insignificante, impercettibile.
Fatto sta che sempre nel nostro, di verso, ha beccato Oscar e nomination a gogò, probabilmente da una giuria proveniente da un altro sistema solare, dove magari i Lumière, o chi per loro, devono ancora approdare.
Assurdo questo successo,  ma avvenuto veramente, a significare che la multi(di)versità è possibile, e cioè che qualcosa di elementare, rozzo, sempliciotto, goffo, col trucco posticcio da circo di periferia, riesca a rimbambire critici e pubblico chiudendoli nello sgabuzzino parallello a quello dove, invece, si potrebbe girare grande cinema.
Espedienti visivi stravisti mutuati da Limitless o ancora più indietro: De Broca, "appena" nel ’73, in Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, già passava allegramente per multiversi come pretendono ora i novelli The Daniels, che oltre alle cineserie, al kung fu di serie C, ai costumini grotteschi, a soluzioni che vorrebbero andersoniane ma che sfiorano appena il mondo di Wes, ad un’apparente frenetichezza di montaggio in realtà statica, a sfruttare giusto due/tre location e layout da playstation, si ripetono per infiniti 140 minuti coi quali probabilmente tanti altri avrebbero fatto girare iperbolicamente l’utenza per una decina di multiversi reali.. quello che riesce meglio, alla fine, è l’universo coi sassi, dove si discute di mer**a, probabilmente riferendosi ad un pietrificante  Everything visto in sala.. Ci sarebbe da tirarli in realtà (i sassi), ma si getteranno dalla rupe in autonomia, come avremmo sperato anche da parte di questi due registi i quali mai, immagino, nel peggiore, schizoide e più paranoico dei multiversi alternativi, avrebbero sperato di poter vincere un Oscar come Miglior Film e fare incetta di premi e premini.
Giuro, ancora non ci credo..  

giovedì 5 ottobre 2023

IL DIBATTITO SURREALE

Ed eccoci, di domenica pomeriggio, in pieno centro, a Roma, alla presentazione del "Laboratorio Roma050", progetto capitolino per la riqualificazione urbana con Stefano Boeri (l'architetto del bosco verticale milanese) a gestire operazioni e nuove idee. Intervistato dallo scrittore Filippo La Porta (da sempre affascinato dalla sua residenza all'Aventino), assistiamo invero a sperticati elogi l'uno verso l'altro; si viaggia molto a chiacchiere, enfatizzando ed esaltando lo spirito e le atmosfere romane, nonché l'entusiasmo verso questa nuova (ed onerosa) avventura che - nomen omen - si pone come traguardo definitivo il 2050(!)

Uno dei punti cardine sembra essere rappresentato dal teorema dei "quindici minuti", di cinquestelliana memoria, per quanto riguarda giusto il tentativo di realizzarla a Roma, e prima ancora eleborata da Carlos Moreno, docente alla Sorbona; idea secondo la quale ogni cittadino deve poter usufruire di tutti i servizi essenziali nel raggio temporale di quindici minuti (spazi verdi, sanità, scuola, amministrazione, lavoro, sport, tempo libero, spesa, etc..). 

Roba da fantascienza anche in provincia.. in pratica si dovrebbe ricostruire un'altra Roma, accanto a questa.. ma tanto, nel 2050, chi si ricorderà più.. intanto le sovvenzioni, però, partono da subito..

Paradossale ed emblematico, nell'occasione specifica, il luogo scelto per questa presentazione: Piazza Borghese, in pieno centro storico, con un'arteria trafficata a scorrere di fianco e continui rombi di moto, auto e clacson a disturbare l'intervista.. tanto per evidenziare quanto distanti siano dalla realtà questi geniali pontificatori..

Viene da parafrasare Calvino:
"Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie che offre, ma la risposta ad una tua domanda ..di parcheggio".

sabato 8 luglio 2023

QUATTRO FILM AD APPARENTE CASACCIO

..ma in realtà tutti sulla presunta presunzione del poter risorgere.

IL PRIMO GIORNO DELLA MIA VITA


“Abbiate nostalgia della felicità solo così vi verrà voglia di cercarla”

Quante sono davvero le persone che stanno bene con se stesse e col mondo che le circonda?
Sembra essere questo l’assunto da cui parte la storia di Paolo Genovese, da lui stesso scritta prima come romanzo e poi trasposta al cinema.

Quattro personaggi che decidono di farla finita per cause ed eventi diversi, cui vengono offerti sette giorni di vita supplementari, da spettatori, per vedere come il mondo reagisce alla loro dipartita, e anche qualche squarcio di futuro nel quale invece rimangono in vita,  reagendo alle loro problematiche.

Ovvio che una facile impronta di filosofia new age abbia infastidito parecchi, ma il film è pervaso comunque di sensibilità autentica, di punti di vista carichi, di risposte reali (aprendo una parentesi, e alla luce degli ultimi tragici ed assurdi eventi, anche il paradossale episodio del ragazzino youtuber acquisisce tutta un’altra delineatura..).

E anche l’epilogo, affatto scontato quando ti imbarchi in avventure fantastiche ed irreali, diviene carezzevolmente familiare e comprensibile, nonostante l’aurea drammatica.   

 

IL COLIBRI'

In questo Premio Strega di Veronesi adattato dalla Archibugi,
campeggia un Pierfrancesco Favino insolitamente disinnescato. E’ il centro perenne di questi cinquant’anni di storia familiare freneticamente frullati assieme, dove si barcamena in una serie di passioni, disgrazie, schizofrenie e personaggi borderline da far perdere il senno a chiunque.

Il nostro Colibrì invece - definito inizialmente così dalla madre per la sua gracilità - sembra destinare tantissimo sforzo affinché, gattopardianamente,  nulla cambi,  così lo inquadrerà infatti la sua eterna platonica amante.
A ben guardare invece, sembra di assistere ad un novello Forrest Gump, dove comunque Favino la vita la sconquassa per bene: bruttarello riesce a far invaghire la bonazza vicina di casa che tresca pure col fratello di lui, molto più carino; va a pescarsi la moglie in base ad un’illuminazione del destino (chi riuscirebbe di noi comuni mortali?), iscrive la figlia a scherma perché questa immagina un filo dietro di lei, e quindi cosa migliore di attaccarcelo davvero? Molla serenamente 840 mila euro vinti a poker, lascia la moglie in clinica psichiatrica, tirerà su la nipotina che saprà nera solo al momento del parto..e via coi quadretti sbalestrati di vita sottosopra.
Già dagli anni 70 nella loro agiatissima villa al mare scopriamo inquietudini sentimentali e sbalzi d’umore preoccupanti.. pensa se erano poveracci di periferia, poi dice che anche i ricchi piangono.. tutto affastellato di rogne varie fino alla spettacolare eutanasia in giardino, dove vengono invitati tutti tranne l’amico Duccio (Totò menagramo dei poveri, ce l’avrei visto bene nella scena clou, con la siringa fatale che s’inceppava..), da brividi solo per l’assurdità.
Nel mezzo da segnalare un Moretti psicanalista da strapazzo sconvolto perché una paziente vuole far fuori il marito (aveva cominciato il giorno prima ad esercitare?!), perfettamente propedeutico però, immagino, per il suo ultimo film ora in sala. 

 

QUANDO

L’operazione nostalgia di Veltroni si fa prendere un po’ la mano “quando”, descrivendo Giovanni (un Marcoré in vena di gigioneggiare), in coma dal funerale di Berlinguer e risvegliatosi 31 anni dopo, tiene a sottolineare soprattutto quello che non c’è più rispetto a quello che c’è ora, e quindi fidanzate che non potevano certo aspettare un miracolo, una vita che scorre nonostante tutto, trent’anni fuggiti via insieme al partito sfumato anch’esso, le belle ciao ancora da cantare in coro.

Un rammarico più ideologico che fisico quello di Giovanni /Veltroni.
Gli nascondono l’ex fidanzata, ma lui sembra neanche chiederselo mai come mai non sia più al suo capezzale, mentre gli fanno però notare immigrati, torri, muri crollati, mamme rimaste impigliate nel ricordo.

Ecco, come per la mamma assistiamo a questa cristallizzazione elementare, un’operazione nostalgia troppo permeata di buonumore e battutine, lo spazio per l’analisi del trauma si prende tempi minimi, quasi con la paura di infastidire lo spettatore.  Poi ci si tuffa leggeri  nella vita odierna che manda in fibrillazione chiunque, figurati uno che viene da trent’anni prima.

Dopo un coma simile dovresti risvegliarti quasi cadavere ma il nostro c’ha subito la battuta pronta e il trauma 18/51 anni sembra sempre sfiorarlo appena. C’è rimasta pura una super suora accanto a lui, una bellissima Solarino che esalta fin troppo dubbi e tormenti, e si esibirà pure lui, come terapeuta, per un ragazzo ricoverato affetto da mutismo selettivo.

Probabilmente ha nuociuto il passaggio libro/film. Lo stacco pagina/ immagine ha pagato pegno specie “quando” decidi di sottolineare troppo quello che lasci, bignamizzando freneticamente quello che trovi, in certi frangenti sembra un’operazione al contrario, che probabilmente piacerebbe al Veltroni di oggi: risvegliarsi di botto trent’anni fa e tentare di fare qualcosa di meglio.


WAR  LA GUERRA DESIDERATA


Parte bene e assembla tutta una tipologia di isterismi sopra le righe, anche se tanti sembrano episodi slegati, a far capire quanto poco basti all’uomo per far emergere i lati peggiori, quelli che possono portare al disastro senza neanche accorgersene.
Da questo punto di vista War evolve bene, mischiando assurdo e convenzionale, accostando soggetti lontani e mossi da esigenze diversissime, eppure entrambi disagiati e sconnessi col mondo terribile che li sta coinvolgendo. Un clima irreale permea Roma, cogliendo atmosfere lockdownesche e climi da stadio; Edoardo Leo da solo garantisce equilibrio, risata, intimità come fosse calato dall’alto in questo schizzatissimo circo prebellico, muovendosi in realtà che non gli appartengono per ritrovarsi in una vita che mai avrebbe immaginato (da esperto di lingue romanze ad allevatore di vongole). Purtroppo ci si perde in lungaggini di atmosfera pseudo sognante, specie per dar risalto a Miriam Leone, grazioso orpello ma ben poco definita.
Stefano Fresi appare praticamente in un cameo di incredibile tenerezza, e Giuseppe Battiston offre vita all’irrequieta frangia di schizofrenia che ognuno di noi magari coltiva misuratamente ma tiene serenamente a bada fino a che taluni eventi finiscono per sabotare ogni autocontrollo.
Insomma operazione originale e curiosa War, che non facciamo neanche più fatica ad ipotizzare dopo gli ultimi eventi bellici che mai avremmo supposto oltre i confini di una sala cinematografica o dal comodo streaming di Netflix.

giovedì 11 maggio 2023

IL SOL DELL'(RI)AVVENIRE

 

"Ma io avevo chiesto Piazza Mazzini!!!.."

Sui titoli di coda viene specificato che nessuno animale è stato maltrattato, molti spettatori sì, invece.
Magari quelli più affezionati, quelli usciti male da Tre piani e che rivolevano, chessò,  Palombella rossa.
E invece si beccano un bignamino assemblato senza criterio, con l’insistita parlata catatonica (ma lo fa anche in privato?), cadenzasse anche Aretha Franklin allora, invece di stonarla soltanto,

 o magari le danze dervisce  e le canzoni di Noemi cui costringe troupe e comparse in una sorta di allineamento emozionale sulle corde dell'Unico Regista Possibile.  
Tutto fuori tempo e luogo,  con la risatina sollecitata, come con l’attore che all’inizio si stupisce che in Italia siano esistiti davvero i comunisti o la botta d'insofferenza sui sabot, e già lì capisci che il film sarà tutto asincrono, tutto un ripescare
(tranne la Nutella, chissà forse sarebbe stata troppo what the fuck) tutto un forzare, come il set del filmucolo prodotto dalla moglie, irrealmente bloccato per otto ore dissertando sull’etica della violenza (a Tarantino scippiamo solo i finali con la Storia ribaltata..).

Si insiste su questa idea di metacinema ormai sdoganata proprio da Netflix, sì, la piattaforma maltrattata vista in 190 Paesi, contro Moretti visto in 190 paesi (del Lazio e della Lombardia), con la Storia che si pente solo ora di essere stata filosovietica (in epoca più recente poi, ci volle Occhetto per togliere il comunismo dal nome del partito), i quarticcioli di cartapesta (non c’era una periferia vera dove girare? Il Moretti mi sta diventando esigente.. dall’ iniziale autarchia agli elefanti ai Fori Imperiali..)

Invece di Palombella rossa ritrovo vaghe tracce solo nel circo e nelle bracciate stanche che vorrebbero girare Il nuotatore, ma che ormai possono solo suggerire baci nel sogno di un ulteriore film nel film, mentre li negano nell'altro film nel film, che magari avrebbe dovuto girare quarant’anni fa, invece di fare giusto qualche “girotondo”..

 "Non posso girare un film ogni cinque anni" si lamenta il nostro, ma è proprio lì che tendo ad approvare il lasso temporale circa un eventuale prossimo suo. Tanto nel frattempo riesce a cadenzarsi fiaccamente anche in apparizioni surreali come ne Il Colibrì della Archibugi..

Siamo al livello dell'ultimo, logoro Woody Allen, che trova degli alter ego copie conformi e narrazioni stantie e senza più brio; tra un po’ anche Nanni cercherà un suo feticcio (spero non Silvio Orlando, parla troppo veloce) e si riproporrà nella copia copiata di se stesso chiamandosi giusto a salutare come una figurina sui titoli di coda, in una parata di vecchie glorie e comparse..  è a questo punto che si gualciscono anche le poche battute valide, disperse e affogate, loro malgrado, da vagonate di citazionismi e autoreferenzialità superflue.

“..e gli antidepressivi - La crema per il viso ce l’hai? - Scusa ma usi gli antidepressivi? Certo come faccio a girare con la Buy altrimenti”

 


domenica 12 febbraio 2023

SANREMO FOLLOWERS


Be'.. non devo certo essere io a segnalarlo.. quest'anno ci si è buttati a capofitto sui social, tant'è che la prima ospite è stata la reginetta delle influencers, e cantanti e ospiti venivano segnalati non per i loro successi, ma per numero di "streaming", di "followers", di "meme" di "like su instagram", "tag" o "presenze su Spotify".

In fondo sono "solo" cinque giorni, e il baraccone offre lo spunto ma poi bisogna sopravvivere.

Io sono vecchietto praticamente e me lo ricordo il Sanremo di un giorno, e poi 2, poi 3, poi 4.. e da qualche anno cinque giorni strapieni.
Dibattiti, commenti, interviste.. spesso sul nulla più nullo (Si sono
 tirate l'acqua Arisa e Anna Oxa? E' vero che le rose de Blanco erano spinate?), questa la media.. in uno degli infiniti pre/post/para/prima/dopo festival ho sentito pure il tenero Nicola di Bari affermare col vigore che gli è rimasto: "Blanco però andava squalificato!" e la conduttrice con voce quieta e comprensiva da badante caritatevole: "Guarda che non era in gara, era solo ospite Blanco..".

Poi montagne di sviolinate femministe e subito dopo esempi di becera misoginia.
E alla fine cinque maschi che vincono, due maschi che si baciano, due maschi conduttori, un maschio al dopo festival ufficiale.. magari solo un caso eh!

.. e, come sottolineai lo scorso anno, qualcuno canta pure.. ;)

Conosco anche le obiezioni: ma perché lo vedi, ma cambia canale, ma lascialo a chi lo apprezza, ma chettefrega.. e non avete tutti i torti, ma in fondo fa parte dello spettacolo e importante è non prenderlo e non prendersi sul serio, perché lo sanno tutti che per la musica, anche per quella popolare, per quella da radio, per quella che manda avanti davvero il baraccone Sanremo è giusto una parentesi, un flash, una sgasata isolata, nessuno mai porta canzoni meravigliose a Sanremo, ma Sanremo le ammanta di caduca bellezza,  e quest'anno più degli altri aspettavo con ansia i miei Depeche Mode, che non so cosa e quanto c'entrino, però ci stanno e quindi, me li godo.

Eppoi come non segnalare il momento top dell'intero festival.. l'incipit dello pseudo comico Angelo Duro, con lui rivolto ad Amadeus: "Sto cretino, m'ha fatto uscire all'una meno dieci!" 


mercoledì 11 gennaio 2023

THE FABELMANS - SPIELBERG'S LIST

 


No. Non ci siamo. Rispetto per il regista che è stato, rispetto per l’infanzia travagliata, rispetto per il coraggio e la forza di mettere in piazza delicati tormenti familiari, rispetto per alcune scene all’altezza (dalla sequenza iniziale col suo primo film al cinema, al treno proiettato sulle mani, alla mamma chiusa in armadio col filmino che scorre, fino all’inquadratura finale con orizzonte giù e orizzonte su) ma tutto un resto infarcito di inutile melassa e luoghi comuni davvero da non credere, stereotipi inaccettabili, lentezze fuori luogo, ironia e potenza visiva ridotte al lumicino.

Ci si incarta nell’omaggio tout court verso la madre, della quale cuce una redenzione quasi forzata a danno di un padre genio tecnologico ma decisamente meno visionario rispetto al futuro del figlio, occupando più di mezza pellicola, ed intorno quadretti risicati di bullismo da serie tv e prove registiche in embrione dove istilla lampi di recitazione tra i suoi attori (lo immagino con Harrison Ford..), oltre al continuo e sterile racconto di traslochi e rimpianti, capricci, parentesi di parenti e paradossali invaghimenti adolescenziali.
É  la seconda volta, dopo West side story, che trovo uno Spielberg a tre cilindri, e stavolta manca anche la “notevole fattura” che almeno permeava il remake del noto musical.


The Fabelmans gioca lento e al déjà vu, come avesse paura di tirar fuori la sua voglia di cinema, e nel filmino della Marinata scolastica, dove vorrebbe esaltare le proprietà psicologiche del cinema nel circuire il “bulletto belloccio antisemita”, fa solo autogol attribuendo capacità di autoanalisi che mai il fighetto preso di mira avrebbe potuto elaborare, permettendosi comunque l’unica trance dell’ironia che tutti gli riconosciamo: “Tranquillo non ne parlerò, a meno che decida di farci un film..”.

E il film l’ha fatto alla fine, ma è come se in qualche modo stesse raschiando il fondo del barile, facendo gridare alla meraviglia tutto un mondo disposto a seguirlo sempre e comunque, qualunque sia il taglio di orizzonte applicato, a dispetto delle illuminazioni fordiane.


 

 p.s. proprio di stamattina la notizia della migliore regia per i Golden Globes a Steven Spielberg. Lo ritengo un omaggio alla carriera, ma resta mia opinione.  ;)


sabato 16 luglio 2022

YOU DON'T KNOW ME SERIE NETFLIX

 

You don't know me  -  serie Netflix

A noi piacciono le serie legal drama. I thriller d’aula di tribunale, dove una sana requisitoria può far cambiare idea ad un’intera giuria oltre a te, sbragato sul divano.

Non ci piacciono però quelle serie tipo dieci puntate dove ti affliggono all’infinito e  arrivi alla fine che quasi quasi  vuoi andarci tu, nel braccio della morte.

Il paradosso di questo You don’t know me, è che lo abbiamo scelto anche per le “sole” quattro puntate previste.
Una cinquantina di minuti l’una, con trailer che prometteva scintille e cotillons, storia accattivante:
un giovane nero imputato di omicidio, con una caterva di prove schiaccianti contro, e lui che  licenzia l’avvocato e decide di autodifendersi dichiarandosi innocente.
Ci solleticava un bel po’ ma..

Primo errore. Il thriller ci sarebbe pure, i colpi di scena anche (e fin troppi), ma la struttura è ingannevole, il finale non risolutorio, si rimane con il più classico dei “ma che davero?!”

Secondo errore: la lentezza pazzesca della narrazione riduce di brutto tutta la pazienza e l’entusiasmo accumulati nel corso dell’auto requisitoria che il protagonista/imputato rifila a pubblico e giuria per la praticamente totalità della serie: quattro puntate che in alcuni momenti pensi si sia bloccato il modem e vai lì a smuoverlo.

Terzo errore: personaggi ammantati di pressapochismo e palpabile irrealtà: i buoni troppo buoni, i cattivi quasi cartoni animati, le situazioni tutte al limite, le soluzioni esagerate, gli escamotages che fanno acqua da tutte le parti, e il finale “aperto” che non fa solo storcere il naso, ma anche tutto il resto.

  


domenica 10 aprile 2022

LICORICE PIZZA (QUASI MEGLIO QUELLA ALL'ANANAS..)

Licorice pizza, al pari di una americanissima pizza impiastrata, rischia di produrre nausea; addirittura la colonna sonora, una dei pochi elementi che si salvano, finisce per infastidire coprendo, spesso a sproposito, i dialoghi;  storia romanzata che si riduce ad una scollata serie di sketch intrisi di American Graffiti, un variopinto divertissement  dove giusto Bradley Cooper mette una firma personalissima, al contrario di Sean Penn che sembra passare per caso.

Bradley Cooper sempre più mattatore..

Alla fine, questo sfilacciato tira e molla tra un esuberante quindicenne cicciottello e un’anonima venticinquenne che vorrebbe solo evadere dalla sua vita ancora più anonima, inanella momenti tra l’assurdo e lo stravagante, spaccati di vita fin troppo spaccati, offrendo una carrellata continua di faccione che tracimano lo schermo e siparietti più o meno (molto più i meno) acchiappanti (coi proprietari del ristorante giapponese mi sono tagliato, a dir la verità, anche se pare che scimmiottare la cadenza nipponica abbia creato subito qualche recriminazione).

Il tutto ripercorrendo la vera storia di Gary Goetzman, uno dei più grossi produttori cinematografici in circolazione e collaboratore di Tom Hanks; sicuramente un piccolo genio, ed in grado, all’epoca, di precorrere i tempi (mise su realmente una vendita di materassi ad acqua e un Palazzo dei Flippers) e innamorarsi di una ragazza per forza “più vecchia”, quell’Alana - musicista nella realtà e già conosciuta da PTA - invero abbastanza insipida  e capace di giusto tre o quattro espressioni facciali ricorrenti e che nel film vaga perennemente immersa nella sua indecisione, rivestita di entusiasmi fragili, come quando gira irrealmente in costume all’inaugurazione dei materassi ad acqua.


Il figlio di Seymour, Cooper Hoffman, se la cavicchia, lo vediamo spesso sornione  o mentre corre al ralenty, comunque in preda al sogno americano (epicentro del film), per fare soldi o baciarsi una venticinquenne.
Può davvero bastare tutto questo mischiume frenetico? Leggo di gente a bocca aperta solo per la guida di un camion in (folle/discesa) in retromarcia.. davvero serve che ci recapitino da epoche spensierate la semplicità, la freschezza, l’incoscienza? Siamo davvero così nostalgici? Possiamo davvero sorprenderci di un’aneddotica costantemente fuori le righe?
In fondo un nuovo embargo lo rivivremo a breve e di politica fasulla, siamo già maestri.

mercoledì 23 marzo 2022

DRIVE MY CAR - LA CANDIDATURA ALL'OSCAR CHE NON COMPRENDO

 


Timidamente, ma non troppo, sembra sia l’unico cui questo film non abbia suscitato tutti questi clamori. Allergico alla lentezza? Refrattario ai dialoghi centellinati? Ostile verso atteggiamenti irreali? Probabilmente un po’ tutto, nonostante una predisposizione iniziale scevra da preconcetti. Questo spottone Saab mi ha lasciato perplesso a cominciare da alcune scelte di base, come il silenzio del protagonista sul tradimento della moglie o l’uscire tranquillamente di casa con lei che dice in tono grave: “Stasera ti devo parlare”, quando hai appena scoperto che ti tradisce. No ma dico: immaginatevici.
Ovviamente tutto necessario per lo sviluppo della pellicola e dei richiami a Checov e Beckett, dove i personaggi attendono a basta, spesso incapaci di (re)agire.
Oltretutto in una messa in scena d’avanguardia, una rappresentazione futurista dello Zio Vanja con linguaggi misti (anche dei gesti) e attori che non si comprendono l’un l’altro. Un film che scorre un po’ a teatro e un po’ (molto)  a bordo di questa Saab che impareremo a conoscere da tutte le angolazioni in riprese (notte, giorno, gallerie, sorpassi, traffico, andata, ritorno) al limite dell’estenuante (mi aspettavo, anche nell’intermezzo sul traghetto, una decina di minuti di onde fisse a susseguirsi..); un’autista carica di rimorsi che sfogheranno assieme ai rimpianti del regista protagonista solo al termine di 179 minuti di peregrinazioni mute e soluzioni visive spesso accessorie. Sicuramente il pathos non ha tracimato e mi sono soffermato sul dito perdendomi la luna indicata, ma comunque ho trovato rudimentali anche i presunti dialoghi chiave e tutto il costruito per accendere emozione, ma attraverso terreno ovvio e visto mille volte, ma stavolta al ralenty.
Lui che non vuole l’autista perché abituato e felice di guidare la sua macchina, accetta quasi per forza e si siede sul sedile ..posteriore! Oltretutto di una macchina a due sportelli? Scomodissimo e teatrale (i richiami si accavallano) ma elementare espediente narrativo per descrivere l’evolversi del formale rapporto passeggero/autista  fino alla complicità  del sedersi accanto, dopo  un paio d’ore e qualche stramigliaio di kilometri, infrangendo una sorta di divisione emotiva che sorprenderà giusto chi vuole farsi sorprendere.
Ma ce ne sarebbero di altri inceppi: dall’attore/amante della moglie scelto quasi masochisticamente dal regista e i suoi comportamenti grotteschi (il ridicolo non voler essere fotografato dai fans che lo porterà a scelte deliranti), il continuare a studiare una parte che, guarda caso, si rivelerà provvidenziale, fino alla giovane autista tormentata che d’incanto passerà dalla maschera imperturbabile al completo aprirsi (come col fumare nella Saab, vietatissimo fino ad un fotogramma prima).
Mi si dirà che è proprio l'inceppo la chiave di volta.
Soluzioni spesso ingenue che vorrebbero stupire, dialoghi scarni e al limite del grottesco, titoli del film dopo una mezz’ora solo per illustrarci una sofferenza covata nel profondo e uno stacco emozionale da non voler/saper gestire, ed un finale sibillino sempre con la Saab turbo protagonista (gliel’ha regalata lui o vivono insieme una nuova esistenza?) e la giovane autista che guida in mascherina anche da sola (siamo arrivati ai nostri giorni - da Checov a Covid -), finalmente pettinata e senza più cicatrice sulla guancia (ma forse è solo una mia impressione), quasi a sottolineare che in questo film tutto avverrà, ma con calma, maledetta calma, aspettando Godot o chi per lui.