Lo Stanno tutti bene di Tornatore, del 1990, con Mastroianni mattatore, anche se spesso incline
alla macchietta grottesca, non ne limita certo le indiscusse capacità, ma lo
rende a volte più ridicolo del necessario. Quegli occhialini, ad esempio, me li
sarei risparmiati.. Tornatore non si fidava forse della forza espressiva degli
occhi del nostro Marcello?
La storia è un'ideale panorama sui rapporti padri e figli, un’analisi
delicata e distratta, allo stesso tempo, sulle aspettative riversate sulla
progenie, anche elementare se vogliamo, perché la distanza non può giustificare
balle a profusione, e un genitore teoricamente preoccupato e attento, non lo
puoi turlupinare troppo a lungo, così come anche genitori per molti versi,
apprensivi, non possono essere così distanti dalle realtà dei propri figli.
C’è
un gap di pura funzione cinematografica, che serve ad architettare la storia, a
renderla sorprendente e sentimentale, tenera e cinica, malinconica e
moralizzatrice. Ma eccessiva poi, l’impalcatura felliniana, le parentesi oniriche, la
forzatura disegnata su un Mastroianni che alla fine appare più divertirsi, che preoccuparsi.
Apprezzabili, per l'epoca, le proto challenge mannequin, con la folla "immobilizzata", magari un azzardo tornatoriano, sentitosi autorizzato dal
fresco Oscar di Nuovo Cinema Paradiso.

Lo Stanno tutti bene di Kirk Jones, del 2009, con Robert De Niro, nonostante peschi molto dell'originale, da buon remake, offre comunque una fresca, contemporanea e toccante versione di un De Niro alla ricerca dei suoi “bambini” in giro per l'America.
Un genitore rimasto vedovo, con un legame da restaurare coi quattro figli, tutti lontani da casa, e come spesso accade, mai cresciuti all'occhio di padre affettuoso ma esigente, seppur incapace di instaurare un qualunque feeling come riusciva alla mamma, ora scomparsa.
Il film è la ricerca di quel tempo perduto, delle confidenze mancate, delle richieste inespresse, la presa di coscienza di assenze maturate (splendida la telefonata a casa nella consapevolezza di poter ascoltare solo la voce della moglie registrata in segreteria, unico conforto in un momento di particolare delusione).
Ci ancoriamo ad una serie di siparietti delicati, magari costruiti ad effetto, ma con garbo, come l'agognata reunion attorno ad un tavolo con tutti i figli visualizzati neanche adolescenti, ma già con la loro vita adulta disegnata addosso, ed è tenera la ricognizione per gli States di un De Niro disorientato, che attacca bottone con tutti, con quella naturalezza che riconosceremmo in un nostro genitore, e quella stessa voglia di raccontare, con generoso orgoglio, dei propri figli.
Ed è il De Niro che ci convince di più, che accompagniamo volentieri, tra una foto di antiquata macchina fotografica a pellicola, ed un tentativo di sbrecciare nuovo spazio in quei figli inascoltati (Kate Beckinsale, Drew Barrymore e Sam Rockwell - già ammirato in Moon - tutti a loro agio nel rappresentarsi tenacemente svagati), incardinati nelle loro vite tra il ribelle e l’incompiuto, ma solidali nel salvaguardarsi e nel voler salvaguardare, ora, il papà da ulteriori traumi, anche i peggiori.
Un road(rail) movie che accorcia distanze rispolverando affetti.
Quelli che spesso teniamo chiusi in fondo ad un cassetto. A che serviranno poi, sembra dirci la storia, lasciati cosi timorosamente inutilizzati?
Ovviamente preferisco il remake, non per americanosità a tutti i costi, ma perché - niente da fa.. - quelli il cinema ce l'hanno nel sangue..