Prendete una
storia vera.
Quella di
Mark ad esempio, eccentrico fumettista e fotografo, con una passione
per le scarpe da donna che colleziona ossessivamente ed il vizio
dell’alcool che a volte lo fa straparlare;
una sera,
Mark, sarà pestato e ridotto in fin di vita da una banda di balordi
omofobi.
Ne faranno
un documentario, a testimonianza di come un essere umano, costretto a
non poter più disegnare da un’amnesia procurata con violenza,
possa costruirsi un mondo virtuale fatto di bambole e manichini in
miniatura, che lo aiuti a sopravvivere ricreandosi una vita tutta per
se.
Prendete
infine un regista che venga a conoscenza della storia, e ce la
racconti arricchendola con la sua proverbiale visionarietà, quella
che ha contraddistinto i suoi migliori film.
Ecco a voi:
Benvenuti a Marwen. Il protagonista è Mark, ma anche le sue
creature, le sue storie, le sue agonie, le sue paure somatizzate e
disinnescate attraverso il suo villaggio belga, ricreato con
artigiana certosineria, ai tempi della seconda guerra mondiale, con i
tedeschi, I personaggi che lo abitano, tutti trasposti dalla cruda
realtà, quella che lo perseguita e quella che lo salva, quella che
lo affligge e quella che se ne prende cura.
E poi la
Resistenza, gli agguati, i fantasmi e le rappresaglie.
Ed a
resistere è Mark, vittima dei suoi aguzzini che gli hanno privato
memoria, coscienza e capacità manuali, ma non la forza di sognare,
non l’entusiasmo della sua fantasia, non la volontà di fare
“fronte”, in tutti i sensi, con una terapia vincente.
Steve Carell
è il protagonista assoluto in una performance che lo vede in coppia
col suo alter ego versione Big Jim, circondato da uno stuolo di simil Barbie, nella proiezione bambolesca del reale che lo circonda, e che
lo aiuta e sprona ad andare avanti.
L'interazione
dei due mondi è semplicemente fantastica.
Ci aiuta a
comprendere il mondo ed i pensieri di Mark, ci fa vivere un film nel
film, addirittura più film nel film, ci costringe a prenderci cura
del protagonista, a sdoppiarci, a lenire le sue ferite, tifare per il
suo mondo di illusione, fantasticare nelle sue storie dove i pupazzi
vivono e si sfasciano, muoiono e perdono l'anima, per poi tornare a
prendersi cura del loro fotografo, mentore e narratore.
Zemeckis
vince un'altra sfida, sottovalutata da molti, e considerata un
inutile esercizio di stile, infarcito di richiami e citazioni.
Forse da chi
non è entrato nello spirito della storia, probabilmente da chi non
ha mai giocato con dei pupazzi, attribuendogli poteri magici e
taumaturgici; da persone inaridite da troppa realtà, e con sogni
arrugginiti.
A tutti
costoro, consiglio la sala accanto, qualsiasi cosa proietti.