Da
“I 400 colpi” alle quattrocento scenette, il passo sembra
terribilmente breve per il velleitariamente fiabesco Veltroni, che si
cimenta con la commedia infarcendo il tutto di tracimanti ed
insistite citazioni cinefile, ogni scusa è buona: televisori,
poster, interviste di sguincio, spezzoni di cine giornali, fino al
cameo finale con un malinconico Jean Pierre Leaud.
C'è
tempo, ci dice Veltroni, per crescere, imparare, innamorarsi e vivere
davvero.
E
non bisogna avere fretta.
Ma
non bisognerebbe avere fretta neanche di immaginarsi registi,
annaspando tra tematiche e questioni di ogni genere, passando dalla
violenza sui minori alle convivenze gay, dalle polemiche sugli affidi
alle crisi familiari.
Di
fondo un road movie generazionale dove Fresi (quarantenne irrequieto
e sensibile - come lavoro fa l'osservatore di arcobaleni per conto
del CNR ed il manutentore di uno specchio a Viganella, nella Val
d'Ossola, che riflette luce solare sul paese al buio per circa tre
mesi l'anno, ed esiste davvero! -), scopre che il padre, mai
conosciuto e dal quale è stato abbandonato subito dopo la sua
nascita, ha un figlio tredicenne (all'apparenza stoccafisso imborghesito
precocemente e pure juventino - come Veltroni -) rimasto ora orfano.
Una
sentenza di tribunale lo elegge ora unico, e ben remunerato, tutore
legittimo del ragazzino, ma inizialmente
-
anche sobillato dalla moglie che coglie l'affare - non è per nulla
entusiasta di accettare l'offerta.
I
due “fratelli” vedranno convergere le loro esistenze, prospettate
da subito (in una delle scenette tirate per i capelli, in Tribunale),
come inconciliabili.
Ma
affinità ed affetto fraterno vedranno presto la luce, e fin troppo
repentinamente..
Il
film viaggia ad intermittenza, alternando intramezzi surreali (il
vigile, il banchiere, la mamma svampita) ad una parvenza di storia
lineare dove anche l'incontro della cantante similGiorgia, Simona
Molinari e relativa figlia, sembra solo voler risolvere a tarallucci
e vino beghe molto più contorte.
Quattro
essenze disordinate in cerca di quiete, immerse in un pout pourri di
eccessivo ed arruffato strafare, dai paesaggi da cartolina ai
continui “ma che davero” a rendere tutto folcloristico e
forzato.
Non
mancano le buone intenzioni ma tutto è slegato e frettoloso, come se
Alberto Angela passasse di botto da Pompei alla telecronaca di una
Finale di Champions.
Di
sicuro salvo il pallone lanciato in aria e che sembra non cadere più,
metafora delicata di quel “c'è tempo” per crescere e maturare.
Ma davvero troppo poco per promovere Veltroni.
Un
film in evidente fuorigioco, quasi come quel gol di Turone di
millemila anni fa...
p.s.
Ultima nota per le la tonnellata di variopinte magliette e camicie in
tinta che Fresi sfoggia a getto continuo, c'era un tir guardaroba che
li seguiva, e non ce ne siamo accorti?!