Ritrovarsi
dalla vita reale proiettati in un pronto soccorso, è un po' come
vivere un'allucinante avventura che ti scaglia in un mondo
immaginario, fino a qualche ora prima verificabile solo su
rassicuranti e distaccate serie tv.
Basta
una colica, che tu scambi che per un normale mal di pancia, con
vomito annesso.
Solo
che inizi a mezzanotte e dopo 12 ore non accenna a calare, e tua
moglie decide di portarti al Pronto Soccorso, e tu ti fai portare,
perché stavolta senti qualcosa di troppo storto.
Pronto
Soccorso di una grande metropoli.
Lasci
la civiltà, e ti accomodi nel caos.
Anzi..
gli dici che stai a pezzi e ti accettano quasi subito, prelievo del
sangue, pressione, elettrocardiogramma, maglietta bagnata per poterti
attaccare gli elettrodi, ti manipolano un attimo, ti chiedono se sei
allergico.
Poi
via, primo step, piazzato in un limbo di abbandonati.
Terra
di nessuno. Puoi lamentarti, urlare, bestemmiare.
Finché
non chiamano proprio te, nessuno ti si fila.
Dopo
un paio d'ore arriva il tuo turno e allora, si, giungi nel fulcro,
quasi tutti in barella, un immenso corridoio gomito a gomito spesso,
una striscia di Gaza che ti divide da una diagnosi ancora miraggio -
talvolta separati da tendine volanti sospese al soffitto - alla pura
attesa abulica e vuota.
Arriva
un medico, mi tasta l'addome, mi chiede cosa ho mangiato, cosa ho
preso.. Buscopan e Antispasmina colica, gli dico. Il dolore è fisso?
Si.. suggerisco Maalox che l'infermiera all'accettazione aveva
nominato. Sembrano prendere la palla al balzo, mi preparano un
bicchierino. Ingurgito, ma nulla, neanche dopo un po', avrei
preferito un placebo...
Passa
il tempo. Non c'è posto al reparto, tanto meno nei pochi letti di
pronto soccorso. Ogni tanto ti spostano più in là, più a destra o
a sinistra, se cercano qualcuno urlano il tuo cognome in corridoio,
strillano tutti, infermiere e infermieri, sono frenetici, formichine
impazzite.
Una
foga da stress, da iperattività, da disorganizzazione, da qualcosa
che faccio fatica ad accettare, anche perché non sono lì come
osservatore, ma chiamato in piena causa, a scorgere qualcuno che ti
rivolga un segnale, che ti allevi uno spasmo; mi sembra tutto fuori
giri, asincrono.
I
dolori sono costanti, si prepara la notte, di dormire non se ne
parla. Avevo sentito parlare di “visita”.. alle due mi alzo e mi
avvicino al bunker con medici e infermieri di turno.
Scusate
ma passa qualcuno poi? “Perché sta male?” (no sono in gita
premio... mi verrebbe da dire, ma mi trattengo).
Si,
il dolore è uguale.. “Torni sulla barella, ora vediamo. Il blitz
ha smosso qualcosa, dopo neanche cinque minuti mi chiamano per una
ecografia notturna..
“Ce
la fai ad arrivare fino a Radiologia? sono cento metri, giù in
fondo..”
ce
la faccio...
Dall'eco
si evidenziano calcoli. Quindici ore per passare da un ostinato mal
di pancia, a calcoli alla colecisti.
Mi
attaccano il “rubinetto”, la sondina per le flebo multiple, e
partono antibiotici.
E
dormo pure un pochino, a strappi, girandomi di continuo da un lato e
dall'altro, per attenuare il disagio, le fitte e l'arsura.
Al
mattino il corridoio è una piccola Kabul, barelle alla deriva,
continui arrivi, stento a collegare facce e corpi della sera prima,
consulti in comunità, prelievi col fiato addosso.
Sottraggo,
con la preghiera, una bottiglietta d'acqua ad un umanissimo
infermiere che mi ricorda mille volte “Te la do, ma puoi solo
bagnarti le labbra, mi raccomando”
In
mattinata ci scappa il letto, ma sempre di Pronto Soccorso, abbandono
il corridoio di disperati, ma sto a stretto contatto con medici e
personale che litigano fra loro, coi sottoposti, come in un'emergenza
continua, e con i parenti anche, che devono sfruttare le
risicatissime finestre di visita ai pazienti per riuscire ad avere
qualche notizia.
Giunge
voce di un posto letto al reparto Chirurgia. Il medico di turno dice
a mia moglie “Attenda fuori che tra due ore sale al reparto e lo
raggiunge. Ne passano 7 di ore. Mia moglie è stravolta.
L'antibiotico inizia a lenire i dolori, restano fitte quando respiro
a fondo.
Dopo
una cinquantina d'ore, finalmente salgo dagli inferi alla Chirurgia.
All'infermiera che mi accompagna in sedia a rotelle chiedo.. ma vi
pagano seimila euro al mese o siete in punizione?
“Siamo
in punizione” conferma “chi non riesce a schiodare.. resta là”
Giungo
al reparto, stanza per me, letto fresco, camera accogliente, nugolo
di infermierine e attenzioni, silenzio, e pace, soprattutto.
Una
quiete irreale.
E
non siamo a Villa Stuart (nota clinica romana esclusiva per vip e
calciatori ...), è sempre ospedale.
Ma
un altro pianeta. Non c'è conflitto, non esiste frenetico delirio,
i parenti sono tollerati; ti controllano gli aghi, le flebo, le
fasciature, ti chiedono come stai, cosa hai fatto, come ti chiami,
come ti senti... ma quando gli accenni alla situazione del Pronto
Soccorso, nicchiano, sono restii a parlarne.
Lo
sanno che c'è un “altro” ospedale.. ma è distante.. e vogliono
restarne distanti.
Ovviamente
sono estremi i richiami a Gaza o Kabul, ma servono ad evidenziare
questa disparità di condizione di lavoro.
Li
pagherei triplo veramente questi infermieri e paramedici di Pronto
Soccorso che si fanno in quattro, e che non possono far altro con i
mezzi e i turni che hanno, la prima accoglienza rischia di tarare
psichicamente soggetti già fragili, e minare la fiducia nel pubblico
servizio.
Se
spesso non avviene, è grazie a queste persone che si immolano in
condizioni proibitive, che riescono a donarti un sorriso vagante
anche mentre sei sbattuto alla deriva, senza sapere minimamente cosa
ti attende. E quando.